L’operazione in proprio di Palazzo Chigi

di Ezio Mauro
L a fine della fase acuta della pandemia restituisce una libertà condizionata alla politica, proprio mentre riconsegna i cittadini alla loro semilibertà nei movimenti, nelle scelte e nella responsabilità.
Questo non significa che sia esaurita la minaccia, perché il virus ha soltanto cambiato ritmo e progressione: ma che è finita l’emergenza, quella condizione estrema e assoluta in cui l’esigenza della sicurezza sopravanza ogni altro diritto e dovere, confisca l’agenda pubblica, determina le priorità e detta le scelte dei governi.
Oggi possiamo dire che per tre mesi abbiamo vissuto tutti — il potere pubblico chiamato a scelte decisive, e l’opinione pubblica impaurita — sotto la dittatura della necessità, che per sua natura restringe il ventaglio delle opzioni, impone l’urgenza delle decisioni, riduce lo spazio delle discussioni.
Anche la disciplina dei cittadini di fronte alle restrizioni decise dal governo fa parte di questa particolare costrizione dell’eccezione, che per obbligazione volontaria ha limitato l’autonomia di tutto il meccanismo democratico, chi deve decidere e chi deve adeguarsi alle decisioni.
Si può dire che il governo ha fatto la sua parte, con errori come in tutti i Paesi ma in condizioni specifiche molto difficili, con l’Italia cavia occidentale della pandemia. Non si può dire, invece, che ci sia stata una condivisione di sistema davanti alla sfida dell’emergenza: il sovranismo infatti ha spento i suoi microfoni non per responsabilità ma per difficoltà, in quanto la paura reale del virus ha silenziato automaticamente le paure artificiali di cui la destra nutriva la sua campagna e le sue polemiche. Una difficoltà che permane, perché l’Europa additata per mesi come il nemico dell’Italia si rivela dopo mille tentennamenti l’unica risorsa che può accompagnare una ripresa, mentre sono proprio gli alleati di Salvini che remano contro gli aiuti ai Paesi più colpiti dalla crisi virale. Impigliata in una politica sbagliata e contraria agli interessi del Paese, la destra nazionalista si trova anche oggi in una posizione contronatura, criticando l’Unione Europea perché non interviene di più, dopo averla sempre attaccata perché interveniva troppo.
Si capisce che dopo la fase acuta gestita nella solitudine di un sistema “freddo”, con una base parlamentare ristretta e insicura, il governo si affacci alla ripartenza cercando almeno una base sociale più larga, che gli consenta di trovare dei ceti e degli interessi legittimi di riferimento, su cui appoggiare un programma di ripresa. Con la formula infelice e passepartout degli “Stati generali” l’esecutivo tenta in buona sostanza proprio questo: esplorare la società e i corpi intermedi per costruire fuori dal Palazzo quelle alleanze e quella convergenza di obiettivi che nel sistema politico paralizzato dalle sue debolezze non trova.
Mascherato dall’umiltà “dell’ascolto”, è il tentativo di fondare una nuova legittimazione del potere, da spendere politicamente sul mercato interno e di fronte all’Europa, mostrando che ci sono binari e indirizzi seri e precisi per l’utilizzo delle risorse comunitarie, da non trasformare in mance, cambiali elettorali e cedole assistenziali, ma in lavoro, riforme, infrastrutture, innovazione e modernizzazione, per rendere il sistema competitivo nella partita mondiale del dopo-crisi.
L’ambizione non sembra sorretta dal metodo. Conte ha dato l’impressione di aver varato un’operazione in proprio, auto-stabilizzandosi come perno della fase di ripresa, i Cinquestelle viaggiano sott’acqua, diffidando degli alleati, del presidente del Consiglio e di se stessi, il Pd sembra l’invitato dell’ultimo momento a un banchetto altrui, spaesato.
Il risultato è che nessuna cultura politica, nessuna leadership conseguente, indirizza questo processo, quasi come se il governo a Villa Pamphili dovesse svolgere soltanto la parte educata del padrone di casa, e non avesse invece l’obbligo politico di presentare le alternative, di indicare le soluzioni, di prendere infine le decisioni.
Paradossalmente questo limite è reso più evidente dalle tavole in cui il governo ha riassunto il “progetto di rilancio”, articolandolo con la digitalizzazione del Paese, la sostenibilità, la sicurezza delle infrastrutture, la competitività delle imprese, la formazione e la ricerca, l’inclusione e l’uguaglianza, la sburocratizzazione della macchina statale e la modernizzazione del sistema giudiziario. Da un lato, è quasi un impegno di ri-costituzionalizzazione dei nuovi diritti e delle nuove esigenze, da giocare con ogni evidenza dentro il Parlamento. Dall’altro lato sono tutti temi che, enunciati sulla carta per capitoli, non incontrano resistenze e opposizioni, anche senza passare dai giardini di Villa Pamphili.
Il problema è l’indirizzo di marcia, la visione dell’Italia, l’idea di Paese che si vuole realizzare. Proprio l’emergenza del coronavirus ha portato alla luce punti di forza del quadro nazionale (il lavoro prima di tutto, che ha tenuto in piedi il sistema nei giorni del lockdown, rivelando una sua dimensione sociale oltre che produttiva) ed elementi di fragilità, anche nel servizio sanitario troppo penalizzato nell’ultimo decennio e nel welfare continuamente taglieggiato, mentre va sottratto alla logica di mercato. Da questa lettura della crisi bisogna partire proponendo alle forze produttive e ai cittadini un nuovo contratto sociale che si faccia carico delle disuguaglianze evitando che precipitino in esclusioni e riformuli il patto occidentale tra capitalismo, welfare e democrazia rappresentativa.
Ma per farlo, occorre un’autorità politica che nasce solo da un’identità culturale chiara e risolta, sulla cui base si selezionano i consensi, nell’autonomia intellettuale dagli interessi di parte e dai poteri esterni. È quello che manca a un’alleanza di governo tra partner che si girano le spalle, stanno insieme per obbligo e non sanno ancora come definire la loro coalizione, e qual è la sua visione del mondo.
Se l’identità del governo è irrisolta, come si può ridefinire l’identità del Paese?
Eppure l’occasione di una seconda ricostruzione è troppo importante per sprecarla. Non è in gioco solo la ripresa, ma il tentativo di dare una legittimazione democratica alla trasformazione sociale che stiamo vivendo e ai nuovi equilibri del dopo-emergenza, evitando che nascano dal cozzo casuale del caos virale con un sistema inerte: e la democrazia gregaria.
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