RITORNIAMO A INVESTIRE NELLA CULTURA.

Su La Stampa di ieri, si racconta no alcuni esempi di come negli Stati Uniti si investa nella formazione e riqualificazione per aiutare i meno giovani che hanno perso il lavoro a riconquistarne uno che sia al passo con i tempi. La questione è centrale anche da noi. Benché abbiano portato enormi vantaggi a livello mondiale (un miliardo di persone uscite dalla povertà in Cina e India), l’apertura degli scambi internazionali e la delocalizzazione hanno colpito duramente alcune categorie di lavoratori nelle economie avanzate, in particolare i «colletti blu» al di sopra dei 50 anni: ed è fra queste persone che si sono scatenate le forme più rabbiose e populiste di protesta, in Europa come in America. La reazione rischia di essere ancora più violenta nei confronti dell’intelligenza artificiale. Già oggi l’automazione ha fatto scomparire una serie di mansioni routinarie: si pensi allo sportello bancario o alle agenzie di viaggio. Domani, i robot sostituiranno in maniera crescente anche i servizi alle persone (pulizia, cura degli anziani, ecc.), riducendo le opportunità per chi è privo di un’istruzione avanzata. La storia dimostra che, alla lunga, il progresso tecnico ha sempre creato più posti di lavoro di quanti ne abbia distrutti, ma è evidente che il problema sociale e politico di chi sarà estromesso dal mercato del lavoro rischia di diventare esplosivo nei prossimi decenni. Più che assegnare un sussidio o inventare un «finto» lavoro, favorire l’acquisizione di nuove competenze è la strada maestra per ridare una professione e una dignità a chi è stato investito in età avanzata dall’ondata delle nuove tecnologie. Non è facile: formare una persona, matura e senza particolari qualificazioni, a un lavoro nuovo e tecnicamente sofisticato funziona di rado. Eppure, quello dell’apprendimento permanente – che in Italia riguarda appena l’8% della popolazione attiva contro il quasi 30% nei paesi scandinavi – è un percorso obbligato in un mondo che richiederà sempre più spesso pit stop per aggiornarsi e imparare nuovi mestieri. In una fase in cui l’università si interroga sul suo futuro con toni spesso accesi, la formazione continua dovrebbe essere considerato un campo di elezione degli atenei: posseggono al loro interno le competenze più avanzate sia tecnologiche sia umanistiche; svolgono quotidianamente attività di insegnamento; possono ricevere significativi finanziamenti dal settore pubblico e privato, come avviene all’estero. Eppure l’investimento delle università in quello che è destinato a diventare un punto focale della nostra società appare modesto e poco organico, anche se per avere un quadro preciso si attendono – ormai da qualche tempo – gli esiti di un’apposita indagine dell’agenzia per la valutazione universitaria. Da che cosa dipende questa ritrosia degli atenei? Da un lato, essi hanno scarso interesse a investire nella didattica, per i giovani o per gli adulti: gli incentivi di carriera e il sistema di valutazione sono orientati verso la ricerca, non la qualità dell’insegnamento. È un errore di prospettiva, perché una buona formazione dà benefici immediati a tutta la società, garantendo più crescita e occupazione. D’altro lato, agli atenei mancano oggi risorse, soprattutto umane, e chiarezza nelle strategie di sviluppo: non esistono quindi le condizioni per uno sforzo sostenuto nell’apprendimento permanente. Se non lo faranno le università, saranno altre agenzie, magari online, a entrare in questo campo. Si sarà però persa una grande occasione da parte del nostro sistema educativo: quella di avviare un’attività dall’alto valore sociale, aiutando milioni di persone a riqualificarsi per un nuovo lavoro.
La Stampa.