Paolo Ziliani

Caro Paolo, mi spiace per la tua delusione, ma qui l’unica spregevolezza è quella dei giovani e vecchi somari (i giovani hanno almeno l’attenuante dell’età e di quello che non hanno imparato a scuola) che s’illudono di risolvere i problemi del mondo decapitando, abbattendo o imbrattando monumenti personaggi storici colpevoli di essere figli della cultura del loro tempo (e ora immagino si dedicheranno a picconare in effigie Socrate, Pasolini e quello schiavista suprematista antisemita di Voltaire). Non ho mai fatto “passare in cavalleria” le nozze africane di Montanelli: semplicemente avevo già scritto tutto ciò che so e penso un anno fa, quando un gruppo di femministe festeggiarono l’8 marzo lanciando vernice rosa sulla sua statua. Ma visto che insisti, senz’alcuna pretesa di convincere chi si è già formato il suo pregiudizio, ripeto. Nel 1935, a 26 anni, Montanelli partì volontario come giornalista-soldato in Etiopia, sottotenente in un battaglione di àscari eritrei e abissini. Il suo attendente di colore (sciumbasci) suggerì a lui e ai commilitoni single di sposarsi. Secondo le norme del tempo e del luogo, che non aveva certo importato o imposto Montanelli, chi voleva sposarsi doveva accordarsi coi genitori di una ragazza.

E firmare un contratto pubblico per una dote in denaro e un tucul. Così Montanelli sposò Destà, una ragazza di 14 anni e non di 12 che, com’era (e ancora in parte è) usanza nei Paesi tropicali, era già una donna da marito (anche Maria di Nazareth si sposò a 13-14 anni: pedofilo pure Giuseppe?). Il giovane Indro fece esattamente quello che facevano da sempre e avrebbero continuato a fare milioni di africani: una cosa che a noi occidentali del 2020 ripugna, mentre in quei luoghi era (e tuttora è) la normalità. Il XX Battaglione Eritreo si spostava continuamente nel Paese, ma Destà e le altre compagne dei soldati italiani e africani riuscivano a rintracciarli ogni 15 giorni portando loro biancheria pulita e generi di conforto. Finita la guerra – raccontò Montanelli – “uno dei miei tre bulukbasci (altri graduati del battaglione, ndr)… mi chiese il permesso di sposare Destà. Diedi loro la mia benedizione. Rientrai in Italia giusto il tempo per essere travolto prima dalla guerra di Spagna e poi da quella mondiale. Nel 1952 tornai nell’Etiopia del Negus e la prima tappa la feci a Saganeiti, patria di Destà e del mio vecchio bulukbasci, che mi accolsero come un padre. Avevano tre figli, di cui il primo si chiamava Indro”.

Oggi quel matrimonio combinato quasi un secolo fa sconcerta, come molte usanze tribali di ieri e di oggi (la ragazza era anche infibulata), mentre il “madamato” fra le truppe coloniali è legata a quel clima storico, fortunatamente superato. Ma è assurdo parlare di schiavismo, violenza, stupro e pedofilia (Destà non avrebbe chiamato Indro il suo primogenito). E peggio ancora di razzismo. Che semmai è quello di tentare di imporre i nostri stili di vita ad altri popoli. Infatti, poco dopo l’unione fra Indro e Destà, Mussolini proibì i matrimoni misti fra colonizzatori e colonizzati (e censurò la canzone Faccetta Nera che li esaltava): misura quella sì razzista, non le unioni fra italiani e africane. Che – come ha scritto Angelo Del Boca, maggiore storico del colonialismo italiano – erano semmai un “simbolo di integrazione” che “nell’atmosfera dell’epoca era inevitabile, una tradizione da rispettare… Ne abbiamo parlato a lungo con lui perchè sapeva che ben conoscevo i costumi eritrei e non mi scandalizzavo”. Se sappiamo delle nozze di Indro con Destà, lo dobbiamo solo al suo racconto. A me ne parlò quando gli chiesi chi fosse la ragazza di colore il cui ritratto campeggiava sulla sua scrivania, accanto a quelli di Maggie e Colette, la sua seconda e terza moglie. “E’ Destà, la mia prima moglie africana”, rispose, accarezzando la foto con tenerezza. Questo era il fascista, razzista, schiavista e stupratore Montanelli. Ora ciascuno può dare i suoi giudizi o tenersi i suoi pregiudizi.