UN MINISTRO INDIGESTO AI SOVRANISTI.

 

IL BRACCIO DI FERRO
Con quegli occhiali dalla montatura fuori moda, gli abiti stazzonati alla Peter Falck e la cartella di cuoio sottobraccio, il ministro Giovanni Tria persino nell’estetica si conferma di un altro mondo rispetto alla giovane coppia di governo Salvini-Di Maio. Fosse soltanto una questione di stile, la potremmo chiudere qui. Ma le ultime ore ci dicono che qualcosa sta accadendo ai piani alti del governo, qualcosa che sta mettendo in forse la permanenza del professore in via XX Settembre. Quelle che Tria, con il suo understatement, finora ha fatto passare come sfumature, come mere differenze di accenti, con il trascorrere dei giorni sono diventate prima rughe e poi solchi sempre più profondi. Fino a illuminare un vero fossato tra il tecnico e i due leader giallo-verdi. Almeno su questo punto – l’ostilità a Tria – concordi tra di loro. Lo stallo sulla nomina dei vertici di Cassa Depositi e Prestiti, che ieri ha impegnato il premier Conte in un balletto di vertici prima annunciati, poi sconvocati e infine sconfessati da Salvini, è soltanto l’ultima occasione di disaccordo. E basterebbe ricordare i «sì, ma» di Tria sulla Flat Tax e il Reddito di cittadinanza, la distanza sulla visione di un’Europa che il ministro rifiuta di considerare come matrigna, la disputa sulle deleghe che il titolare si è “dimenticato” finora di dare ai suoi vice al ministero (una grillina e un leghista), persino i sospetti sulla conferma della vecchia dirigenza ministeriale di epoca centrosinistra: tutto concorre ad alimentare il rancore sordo che sta crescendo dalle parti di Lega e M5S contro il successore di Padoan. Si può comprende il tentativo del presidente del Consiglio di far passare tutto questo come business as usual, come la fisiologica dialettica tra il ministro dell’Economia e la dirigenza politica che l’ha nominato. Gli esempi del passato sono innumerevoli, basti ricordare il ministro Tremonti e il rapporto, diciamo complicato, con Berlusconi. Tria, ha sostenuto ieri Conte nell’intervista concessa al Fatto Quotidiano, è soltanto «il Cerbero che deve far di conto». Insomma, ci sta che dica dei no e faccia il volto feroce, ma poi tutto si risolve. Temiamo che il premier pecchi di ottimismo. A noi sembra invece che la traiettoria del professore prestato al sovranismo sia già ben delineata e abbia un solo esito possibile. Come fu per Renato Ruggiero, il ministro degli Esteri che salutò Berlusconi nel 2002 o Domenico Siniscalco, che lasciò la scrivania di Quintino Sella nel 2005. Anche loro tecnici a disagio con una maggioranza politica che procedeva per strappi, per spallate contro i conti pubblici e contro l’Europa, macinando demagogia un tanto al chilo. La goccia che convinse Ruggiero ad andarsene fu la sparata di Bossi sull’Ue «stalinista e fascista» e non è un caso che sia ancora il legame necessario e vitale tra l’Italia e Bruxelles all’origine della tensione fra il professore e penta-leghisti. Siamo sempre lì, dopo tanti anni, con due visioni opposte e inconciliabili. Quella tra chi pensa che il posto dell’Italia debba essere tra i primi in Europa e quella di chi ci vorrebbe far tornare ai presunti fasti di quando si stava meglio quando nel portafogli c’era la liretta, ognuno poteva evadere un po’, le pensioni venivano regalate a pioggia e il titolare del bar sotto casa era italiano e non cinese. Perché alla fine è questo che si imputa a Tria, il vero peccato originale risale alla sua nomina. Più presidenziale che politica. Una nomina nata dal “sacrificio umano” di Paolo Savona, che avrebbe dovuto sedersi al posto dell’attuale ministro. Lui sì, Savona, perfettamente in linea con una maggioranza che a parole dice di voler cambiare l’Europa per il suo bene, ma che nei fatti non ha mai smesso di covare l’uovo da cui dovrebbe nascere il «cigno nero» dell’uscita dall’euro. Dietro il profilo bonaccione di Tria i sovranisti nostrani scorgono non solo la sagoma di Mattarella, ma anche di Mario Draghi, la loro bestia nera. L’uomo che salvò l’euro e, insieme a Mario Monti, anche la sovranità economica dell’Italia. Gli apprendisti stregoni che lavorano sotto traccia per arrivare alla rottura con Tria, magari prima della legge di stabilità, è bene che sappiano tuttavia che il ministro dell’Economia è l’unico vallo che li divide da una nuova crisi dello spread. Il danno reputazionale che deriverebbe dalle sue dimissioni sarebbe enorme. Sui mercati, non sui giornali.
La Stampa. www.lastampa.it/

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