Sulle tracce del più nero dei pittori

Da Napoli alla Sicilia, da Malta a Porto Ercole Lo scrittore americano d’Africa ripercorre il cammino di Merisi che oggi è lo stesso dei migranti
di Teju Cole
Michelangelo Merisi da Caravaggio, nato nel 1571 a Milano, è la quintessenza dell’artista incontrollabile, del genio a cui non si applicano le regole normali. Caravaggio, il nome del paesino dell’Italia settentrionale da cui veniva la sua famiglia, alle nostre orecchie moderne evoca due concetti insieme, ” chiaroscuro” e ” spacconeria”: da un lato una luce violenta mescolata con un buio profondo, dall’altro un’arroganza senza freni. Il grande pittore aveva 6 anni quando la peste si portò via il padre e il nonno nello stesso giorno. Intorno ai 13 anni entrò come apprendista nella bottega di Simone Peterzano, un pittore della regione, da cui imparò probabilmente le basi del mestiere: preparare le tele, mescolare i colori, la prospettiva, le proporzioni. Pare che fosse particolarmente portato per le nature morte e probabilmente fu studiando presso la bottega di Peterzano che assorbì le atmosfere meditabonde di Leonardo da Vinci e dei grandi pittori italiani del XVI secolo, come Giorgione e Tiziano.
Caravaggio molto probabilmente venne a Roma per la prima volta nel 1592, forse perché a Milano era stato coinvolto in un incidente in cui era rimasto ferito un poliziotto ( i dettagli, come moltissime altre cose nella sua vita, sono vaghi). Non fu certo l’ultima volta che avrebbe dovuto lasciare la città in cui viveva. A Roma, non gli ci volle molto per conquistare apprezzamento e notorietà, e a metà degli anni Novanta la sua pittura aveva ormai acquisito lo stile e i soggetti che solitamente associamo al suo nome: suonatori di liuto, giocatori di carte, una panoplia di giovani androgini dall’aria meditabonda. I collezionisti più eminenti, fra cui il cardinale Scipione Borghese e il cardinale Francesco Maria Del Monte, si contendevano le sue opere. Il successo gli diede alla testa, o forse fece scattare qualcosa che si portava dentro da sempre: il suo linguaggio si fece più scurrile, beveva sempre di più, si ficcava spesso in qualche rissa e in molte occasioni venne arrestato.
Nel 1604 Caravaggio aveva 32 anni. Aveva già alle spalle una striscia di capolavori indelebili dipinti per mecenati e chiese di Roma: La cena in Emmaus, La vocazione di San Matteo nella cappella Contarelli, La conversione di San Paolo nella cappella Cerasi, Il sacrificio di Isacco, L’incredulità di San Tommaso.
Quell’anno completò anche la Deposizione, un’opera di profondo cordoglio e sbalorditiva efficacia, perfino per i parametri del Caravaggio. Ma per quanto riguarda la condotta personale, rimaneva uno sconsiderato. « Tal’hora cercava occasione di ficcarsi il collo o di mettere a sbaraglio l’altrui vita » , scrive Giovanni Baglione, suo contemporaneo e fra i suoi primi biografi. Giovanni Pietro Bellori, uno scrittore più tardo, del Seicento, ci dice: « Compariva per la città con la spada al fianco e faceva professione d’armi, mostrando di attendere ad ogn’altra cosa fuori che alla pittura » . Un giorno, mentre pranzava in una taverna, ordinò otto carciofi, e quando arrivarono chiese quali fossero cotti nel burro e quali nell’olio. Il cameriere gli suggerì di annusarli per scoprirlo da solo. Caravaggio, sempre pronto a sospettare un’offesa, scattò su e tirò in faccia al cameriere il piatto di terracotta, poi afferrò una spada: il cameriere scappò.
Da ragazzo, a Lagos, passavo ore a studiare attentamente le sue opere nei libri. L’effetto che i suoi dipinti hanno su di me, la loro capacità di emozionarmi ma anche di mettermi a disagio, non si giustificano solo con il fatto che è come un amico di vecchia data. Altri miei pittori preferiti di quel periodo della mia vita, come Jacques- Louis David, ora non riescono quasi più a entusiasmi, mentre la forza ipnotizzante di Caravaggio sembra addirittura aumentata. La mia ipotesi è che sia legato al fatto che Caravaggio nei suoi quadri metteva se stesso, i suoi sentimenti, più di quanto fosse riuscito a fare chiunque altro prima di lui.
I temi della pittura di Caravaggio possono derivare dalla Bibbia o dal mito, ma è impossibile dimenticare anche solo per un momento che sono dipinti fatti da una persona specifica, una persona con un suo insieme di emozioni e simpatie. L’autore è presente, nei dipinti di Caravaggio. Lo sentiamo che ci chiama. I suoi contemporanei magari erano attratti dall’insegnamento biblico del dubbioso Tommaso, ma noi siamo attratti dall’incertezza di Tommaso, che leggiamo, per certi versi, come l’incertezza del pittore stesso. Ma non c’è solo la soggettività, in Caravaggio: c’è anche la capacità della sua personale soggettività di evidenziare gli aspetti amari e sgradevoli dell’esistenza. L’insieme delle sue opere trabocca di pericolo, seduzione e ambiguità. Perché dipingeva tutti questi martiri e decapitazioni? L’orrore è una parte dell’esistenza che speriamo di non vedere troppo spesso: ma esiste, e a volte ci tocca vederlo. Come Sofocle, o Samuel Beckett, o Toni Morrison, e allo stesso tempo diversamente da loro, Caravaggio è un artista che si addentra insieme a noi nell’orrore, nei luoghi dolorosi della realtà. E, quando siamo lì insieme a lui, percepiamo che non è una semplice guida. Ci rendiamo conto che in realtà lui è a casa in quel dolore, che ci vive dentro. È qui che sta il disagio.
Alla fine di maggio del 1606, due anni dopo l’incidente dei carciofi, Caravaggio perse una scommessa su una partita di pallacorda contro un uomo di nome Ranuccio Tomassoni. Ne seguì una rissa a cui presero parte molte altre persone e Caravaggio rimase ferito alla testa, ma trafisse con la sua spada Tomassoni, uccidendolo. Dopo essersi nascosto per due giorni a Roma, lasciò la città, riparando prima nei possedimenti della famiglia Colonna e poi, verso la fine dell’anno, rifugiandosi a Napoli. Era diventato un latitante.
La carriera di Caravaggio nella sua maturità può essere divisa in due parti: il periodo romano e poi tutto quello che venne dopo l’assassinio di Tomassoni. Il miracolo è che sia riuscito a dipingere così tanto in quel secondo atto della sua esistenza, da ricercato. Le sue opere cambiarono: le pennellate divennero meno accurate, i soggetti più morbosi. Ma continuò a essere produttivo e molto apprezzato dai mecenati. Lavorò a Napoli, a Malta, in ben tre città diverse in Sicilia e di nuovo a Napoli, prima di mettersi in viaggio verso Roma nel 1610, nella speranza di una grazia papale. Morì durante quel viaggio di ritorno.
Nell’estate del 2016 avevo in programma di andare a Roma e a Milano per lavoro. La campagna presidenziale negli Stati Uniti procedeva con una copertura asfissiante e il mondo politico era in fibrillazione. La strampalata candidatura di Donald Trump aveva trasformato il magnate, contro tutte le previsioni, in un contendente. I movimenti di destra stavano guadagnando terreno in tutto il mondo. Migliaia di persone in fuga da guerre e sofferenze economiche morivano nel Mediterraneo. La brutalità dell’Isis aveva reso i video di decapitazioni parte della cultura visiva collettiva. Quello che ricordo di quell’estate è la sensazione che il fato non era semplicemente in marcia, ma era già arrivato.
Sapevo che sarei tornato a visitare i dipinti di Caravaggio a Roma e a Milano. Almeno lui mi avrebbe raccontato la verità sul fato, e avrei trovato nelle sue opere il sollievo che alcuni artisti sono capaci di offrire nei momenti bui. E fu in quel momento che mi tornò su una vecchia idea, che accarezzavo da tempo. Perché non spingermi ancora più a sud, in ognuno dei posti dove Caravaggio aveva trascorso il suo esilio? Molte delle opere che realizzò in quei luoghi sono ancora lì, nelle città dove le dipinse: Napoli, La Valletta, Siracusa, Messina e magari Palermo. Più pensavo a quell’idea, più mi veniva voglia di realizzarla. Non era una sfarzosa vacanza estiva che cercavo. I luoghi dell’esilio di Caravaggio erano diventati tutti punti caldi della crisi migratoria, e non era solo una coincidenza: lui era andato in quei posti perché erano dei porti, e un porto è il punto in cui un certo territorio è più propizio all’arrivo e alla fuga, dove uno straniero ha la possibilità di sentirsi meno estraneo.
Avevo due ragioni serie per decidere di intraprendere il viaggio. La prima è che desideravo fortemente provare quello scombussolamento che sapevo avrei provato di fronte ai dipinti di Caravaggio nei musei e nelle chiese dove erano conservati. Ma la seconda è che volevo vedere qualcosa di quello che stava succedendo in quel momento fuori, oltre le mura.
Arrivai a Napoli alla fine di giugno, scendendo in treno da Roma. Più tardi, quella sera, su via Medina, a mezzo isolato dal mio albergo, passai accanto a una donna che dormiva per terra. Quasi tutto il suo corpo era sotto a una piccola coperta, ma i piedi spuntavano fuori e mi ricordarono i piedi nudi e sporchi della Vergine Maria che tanto avevano offeso i primi critici della
Morte della
Vergine
del Caravaggio. Il giorno seguente, la donna che dormiva non c’era più, ma ne vidi un’altra seduta vicino allo stesso punto, intenta a strillare ai passanti con parole confuse che probabilmente erano incomprensibili anche agli italiani madrelingua. Napoli fu l’inizio e la fine degli anni di esilio del Caravaggio. La prima visita fu alla fine del 1606, la seconda nel 1609, e in entrambi i casi prese importanti commesse. Nell’ottobre del 1606 era già sommerso di offerte e bene accolto nei più importanti ambienti artistici partenopei. Una delle prime opere completate a Napoli fu quella per la società caritatevole del Pio Monte della Misericordia, appena fondata. L’opera, per cui fu pagato senza ritardi e che consegnò in tempi rapidi, era una grande tela intitolata
Le sette opere di misericordia.
Si può vedere ancora oggi nella chiesa per cui era stata commissionata, nel centro della città, vicino alla stretta via dei Tribunali. Le sette opere di misericordia è un dipinto complesso. Nelle foto, il quadro sembra un pasticcio, un ingorgo di immagini. Ma dal vero, a oltre tre metri e mezzo di altezza dentro un piccolo edificio ottagonale, è straordinariamente coinvolgente.
I protagonisti emergono da pozze di oscurità per interpretare i rispettivi ruoli, e sembrano ricadere in quell’oscurità quando l’occhio dello spettatore si sposta su altre sezioni del dipinto. Sul lato sinistro c’è un’allegoria della carità presa dalla Roma antica, l’anziano Cimone che viene allattato al seno dalla figlia. Un cadavere trasportato dietro di lei (vediamo solo i piedi) rappresenta la sepoltura del morto. In primo piano, un medicante a torso nudo, steso ai piedi di San Martino, rappresenta la vestizione degli ignudi. Le sette opere di misericordia, con la sua narrazione affastellata e i suoi effetti di luce, avrebbe avuto un’influenza straordinaria sulla pittura napoletana dopo il Caravaggio. Era uno schema ricorrente per lui: in ogni città dove viveva, aveva l’effetto di un fulmine, un’illuminazione breve ma sconvolgente, dopo la quale nulla era più come prima. Quando uscii dalla chiesa su via dei Tribunali, Le sette opere di misericordia, con il loro movimento ascendente e le divisioni nette fra luce e oscurità, sembravano proseguire nelle strade affollate.
Il giorno in cui arrivai a Napoli vidi alcuni giovani africani che vendevano camicie e cappelli appena fuori dalla stazione. Quel pomeriggio scesi dal Maschio Angioino al Castel dell’Ovo, dove c’erano dei ragazzi che si tuffavano in acqua dalla passeggiata lungo il mare. Vicino all’ingresso del castello, c’era un uomo seduto che vendeva ciondoli. Era senegalese e a volte lavorava come traduttore. Parlava fluentemente francese, italiano e inglese. Il progetto a cui stava lavorando in quel momento riguardava la presenza africana in Italia. Gli chiesi dove fossero gli africani a Napoli e lui mi disse che probabilmente ne avrei trovati a piazza Garibaldi, davanti alla stazione. Ma aggiunse che quello era un quartiere dove non era consigliabile girare di notte. Quella sera andai a passeggiare invece per i Quartieri Spagnoli, il popoloso rione dove Caravaggio viveva e dove aveva trovato la combinazione di cultura alta e bassifondi che tanto lo attirava. Le strade dei Quartieri Spagnoli erano strette e gli edifici alti; molti muri erano pieni di scritte. Era facile immaginarli come un luogo che brulicava da molto tempo di una vita chiassosa e allegra, un posto celato e informale, l’ideale per un uomo in fuga. I Quartieri Spagnoli erano affollati quella sera, pieni di residenti, studenti e turisti. Il cameriere della pizzeria dove cenai, un ragazzo gioviale, aveva un tatuaggio sul braccio:
veni, vidi, vici.
Un’allusione a Giulio Cesare, naturalmente, ma poteva anche essere, ho scoperto poi, un marchio di identificazione dei membri della rinascente estrema destra italiana, un segno di nostalgia per il fascismo mussoliniano.
Il mattino successivo salii fino al Museo di Capodimonte. Dopo una lunga sequenza di stanze una in fila all’altra, arrivai alla Flagellazione di Caravaggio. Cristo è in piedi alla colonna, a grandezza naturale, e intorno a lui ci sono tre torturatori, due dei quali lo stanno tirando mentre il terzo è accovacciato e sta preparando una frusta. Come spesso con Caravaggio, c’è la storia raffigurata, ma al di là della storia, e spesso al di sopra di essa, c’è un’intensificazione dello stato d’animo realizzata attraverso l’uso di un’ombra innaturale, uno sfondo semplificato e una tavolozza di colori limitata. È un’immagine di brutale ingiustizia, un’immagine che ci spinge a chiederci perché una persona, chiunque essa sia, debba essere torturata. Quando uscii dal museo e scesi giù dalla collina di Capodimonte, vagando per le strade affollate della città nelle ore serali, mi sentivo turbato. Immaginavo che la gente mi osservasse dagli androni e dalle finestre. Cominciai a pensare a Caravaggio, che da quando era fuggito in esilio non poteva più dare per scontato di riuscire a trascorrere una buona notte di sonno, ma pensavo anche a tutte le persone in città, in quello stesso momento, che erano in un modo o nell’altro ospiti precari: la donna sotto l’androne a via Medina, l’uomo che vendeva ciondoli a Castel dell’Ovo, i tanti giovani africani visti alla stazione.
Siracusa
Siracusa è costruita con una pietra color miele, sempre la stessa, sia per le case più umili sia per la cattedrale dedicata alla santa patrona della città, Santa Lucia. La leggenda di Santa Lucia è tipica delle sante cristiane: un voto di castità, la consacrazione a Dio, una sfida alle autorità temporali ( nel suo caso il governatore di Siracusa) e la successiva truculenta esecuzione. Alcune versioni dicono che prima di essere giustiziata le furono cavati gli occhi. Per questo è la protettrice dei ciechi. Un contatto a Siracusa mi aveva organizzato un incontro con un giovane del Gambia che era arrivato in barca dalla Libia circa otto mesi prima. D. si era registrato come minorenne (con me ammise che non lo era più e stimo che avesse intorno ai vent’anni) ed era stato messo in un centro con altri minori. Aveva un viso scuro e intelligente e un modo di fare che ti metteva a tuo agio, e mi ricordava i miei cugini più giovani. Sembrava contento di poter parlare inglese con qualcuno e fu ancora più felice quando seppe che ero nigeriano. «Adoro la musica nigeriana», disse. « Ascolto solo quella » . Gli chiesi perché avesse deciso di emigrare. Suo padre era un politico di piccolo calibro, disse, ed era entrato in rotta di collisione con il presidente dell’epoca, Yahya Jammeh. « Mio padre fu costretto ad andare in esilio a Dakar. Le cose erano molto difficili per la mia famiglia. Per mia madre, per le mie sorelle ». Ma allora perché lui non si era trasferito a Dakar? «Non ero molto legato a mio padre». Poi però suo padre era morto e la situazione era diventata ancora più disperata. Lui era andato in Libia per trovare lavoro e riusciva a mandare a casa delle piccole somme. Quando alla fine aveva deciso di pagare i trafficanti di esseri umani per un passaggio verso l’Europa, non lo aveva detto a nessuno, a casa. « Non avevi paura di morire? » . « Sì, un po’», disse, «ma la Libia era diventata terribile. Dovevo andarmene » . « E il viaggio, è stato terribile come temevi? ». «Peggio», rispose D. i trafficanti avevano dato una radio a uno dei passeggeri, che avevano arbitrariamente nominato “capitano”. Le istruzioni erano che doveva cercare di contattare una delle navi italiane dopo un certo periodo di tempo. Dopo qualche ora di frenesia, lo stratagemma aveva funzionato e i migranti erano stati raccolti e portati in Sicilia. Solo una volta arrivato, D. aveva informato la sua famiglia che aveva tentato il viaggio. D. mi disse che gli italiani erano gentili con lui. Viveva ancora nel centro per minori, dove aveva una certa libertà. Ma aveva poco denaro e nessun permesso di lavoro. Erano passati mesi e ora smaniava per lasciare Siracusa e andare in una città più grande.
Poi mi chiese perché mi trovavo a Siracusa. Gli dissi che ero venuto per vedere un dipinto di Caravaggio. Indicai verso piazza Duomo e gli chiesi se volesse accompagnarmi. «Perché no?», disse lui. Mentre entravamo insieme nella chiesa di Santa Lucia alla Badia disse: «Sai, vengo da queste parti tutti i giorni, intorno a questa piazza, e non sono mai stato dentro una chiesa. Non in questa chiesa, in nessuna chiesa. In tutta la mia vita, intendo. Non ho mai visto una chiesa dal di dentro » . La sua famiglia era musulmana. Sembrava stupito di poter entrare semplicemente, che nessuno mettesse in discussione la sua presenza lì o lo fermasse all’entrata. Ci andammo a mettere di fronte alla pala d’altare.
Il seppellimento di Santa Lucia è enorme, largo tre metri e alto più di quattro. Oggi è rovinato. La superficie dipinta è abrasa e ampie aree sono danneggiate. Ma questo non attenua l’effetto. Anzi, la fragilità materiale dell’immagine aiuta a focalizzare l’attenzione sul clima funereo. Santa Lucia, morta, è stesa per terra, con un taglio sul collo visibile, gli occhi sigillati. Una folla si è raccolta intorno al corpo. In primo piano, due uomini dall’aria robusta scavano nel terreno, ma questo “terreno”, perso in un campo di marroni scuri, fa sembrare come se il tempo stesso fosse intento a seppellire l’immagine. Il buio invade i protagonisti da tutti lati. Mentre D. guardava il dipinto, avrei voluto raccontargli che Caravaggio, a questo punto dei suoi viaggi, era diventato paranoico e aveva cominciato a dormire armato. Ma non lo feci. Guardammo il dipinto per un po’ e poi uscimmo dalla chiesa. Fuori, gli occhi di D. sembravano pieni di meraviglia, sia per Caravaggio, immaginai, che per me, questo strano tizio dell’Africa occidentale che sbucava fuori dal nulla a fare strane domande.
Malta
Malta si distingue per l’ottimo stato di conservazione delle sue case e delle sue chiese, per l’imponente fortezza di Castel Sant’Angelo e la persistente e onnipresente influenza del Sovrano militare ordine ospedaliero di San Giovanni di Gerusalemme, di Rodi e di Malta. Fu il patrocinio di questa organizzazione cristiana militante, nota anche come Cavalieri di Malta, che attirò Caravaggio in quest’isola nel luglio del 1607. La parte più popolata dell’isola è un denso agglomerato di cittadine vicino alla Valletta, la capitale. Io soggiornai a Sliema, una di queste cittadine: cenavo in riva al mare, camminavo nelle stradine più tranquille, girovagavo. Fu solo al terzo giorno che raccolsi il coraggio per andare alla concattedrale di san Giovanni alla Valletta. La concattedrale è piena di ori e ornamenti e pulsa del mormorio dei visitatori. Ma se segui i segnali, passando attraverso una porticina sul retro, entri in una piccola stanzetta tranquilla simile a una cappella, l’oratorio. Proprio davanti, ma visibile solo dopo aver girato intorno a un pannello fisso, c’è La decollazione di San Giovanni Battista. L’effetto è di essersi imbattuti in qualcosa di orribile, qualcosa che vorresti non aver visto. Le sette persone raffigurate nel dipinto sembrano persone reali in uno spazio reale, rimpicciolite dallo sfondo scuro. La luce, le dimensioni monumentali ( è ancora più grande del Seppellimento di Santa Lucia), l’altezza a cui è appeso il dipinto e la distribuzione di luce e oscurità sono tutte cose che contribuiscono ad accentuare l’impressione che quello che stai vedendo è un evento concreto: i due prigionieri che guardano l’esecuzione; la servitrice con il piatto d’oro; la vecchia; l’uomo che dirige l’esecuzione; il carnefice che allunga la mano per prendere il coltello con cui completare l’opera; e San Giovanni stesso, prostrato a terra, con il sangue che sprizza dal collo. Caravaggio firma sotto con il suo nome, con una riga rossa che parte proprio da quel sangue.
Tutta la forza malevola dei dipinti del Caravaggio che avevo visto nelle precedenti due settimane – Giuditta
e Oloferne, Il martirio di San Matteo, Davide con la testa di Golia, La flagellazione – tutto quel potere omicida sembrava distillato in un’unica immagine da incubo, una telecamera di sorveglianza puntata su un crimine incompiuto, uno snuff movie. La decollazione di San Giovanni Battista faticò a entrare nella mia visione di tutto quello che pensavo fosse la pittura. Più di un anno sarebbe passato prima di riuscire trovare una chiave che mi ha aiutato a elaborare quello che avevo visto a Malta. Fu quando vidi due brevi videoclip dalla Libia realizzati nel 2017: il primo di questi video mostrava degli uomini venduti in un mercato di schiavi, girato da una fonte anonima; il secondo era realizzato da giornalisti della Cnn che erano andati nei sobborghi di Tripoli per trovare conferma alla storia. Gli uomini venduti erano migranti del Niger: si vedevano alcuni di loro in piedi di notte contro un muro spoglio, un cortile desolato come quello del dipinto da Caravaggio. L’illuminazione era fioca, si faceva fatica a vedere. La faccenda era rapida e spedita: qualcuno annunciava ad alta voce i prezzi, i compratori, fuoricampo, facevano le loro offerte e basta. In quei video vidi la vita rovesciata, la vita trasformata in morte, proprio come nel dipinto di Caravaggio. Non quello che non dovrebbe essere, ma quello che non dovrebbe essere visto.
Porto Ercole
Fu nell’estate del 1610 che Caravaggio venne informato che a Roma qualcuno si stava adoperando per fagli avere la grazia papale, con il coinvolgimento del suo antico mecenate, il cardinale Scipione Borghese. Il pittore lasciò Napoli a bordo di una feluca a metà luglio, portando con sé tre dipinti come regalo per il cardinale. Una settimana dopo era a Palo, una cittadina fortificata sulla costa, una trentina di chilometri a ovest di Roma, da dove, presumibilmente, pensava di dirigersi verso la città. Ma a Palo qualcosa andò storto. Allo sbarco, Caravaggio litigò con due ufficiali del porto e fu arrestato. La feluca salpò senza di lui. Quando Caravaggio fu rilasciato, alcuni giorni dopo, si mise subito in viaggio via terra verso Porto Ercole, a un giorno di distanza. All’arrivo, si accasciò sfinito. La feluca arrivò più o meno nello stesso momento. Era un caldo giorno di luglio del 2016 quando mi diressi verso Porto Ercole. Il mio treno da Roma passò per Palo dopo una trentina di minuti e arrivò alla stazione di Orbetello-Monte Argentario un’ora e mezzo dopo. Presi un albergo a Orbetello e il mattino seguente salii su un taxi e attraversai una lingua di terra che sfocia nel promontorio del Monte Argentario, sul cui lato meridionale si trova Porto Ercole. Caravaggio non ha mai dipinto il mare. Cerco invano un paesaggio marino tra le sue opere: sono rari proprio i paesaggi in generale. Eppure i suoi ultimi anni tracciano una carta del mare e i suoi porti di scalo erano tutti porti effettivi, portali di speranza, di cui Porto Ercole fu la tappa finale e non prevista. È sepolto lì da qualche parte. Ma il suo vero corpo possiamo dire che sia altrove: il corpo delle sue realizzazioni pittoriche, che si è disperso in dozzine di altri luoghi del mondo, tutti i luoghi dove le etichette sul muro dicono: «morto nel 1610 a Porto Ercole».
Era un assassino, un padrone di schiavi, un rissaiolo, un parassita. Ma non vado da Caravaggio per ricordarmi di quanto siano buone le persone, e di sicuro non perché fosse buono lui. Al contrario: lo cerco per trovare un tipo di conoscenza che altrimenti sarebbe insostenibile. Era un artista che dipinse il frutto nel momento della maturazione e nel momento in cui comincia a marcire, un artista che dipinse la carne quando è raffinatamente seduttiva e quando è atrocemente ferita. Quando mostrava la sofferenza, lo faceva con sorprendente efficacia, perché la conosceva da entrambi i lati: la impartiva ad altri e la riceveva nel suo corpo. Caravaggio è morto da tempo, così come le sue vittime. Quello che rimane sono le sue opere e non devo amare lui per sapere che ho bisogno di sapere quello che sa lui, la conoscenza che vibra, a secoli di distanza, sulla superficie dei suoi dipinti, la conoscenza di tutto il dolore, la solitudine, la bellezza, la paura e la terribile vulnerabilità che accomunano i nostri corpi.
Scesi a piedi fino al porticciolo di Porto Ercole. Decine di barche ormeggiate in fila ballonzolavano dolcemente sull’acqua e chiesi a uno degli uomini in attesa sopra di portarmi in mare. L’aria era limpida, l’acqua di un blu intenso con lievi sfumature viola. Sfrecciammo via, e quando il barcaiolo si tolse la camicia, feci lo stesso anch’io. Sembrava avere poco più di cinquant’anni e diceva di aver sempre vissuto a Porto Ercole. Parlava poco inglese. Quando gli dissi che ero di New York, fece un sorrisetto e alzò il pollice. «Ah, New York!», disse. La riva era lontana oltre tre chilometri, ormai. Conosceva Caravaggio? Certo che lo conosceva. Indicò la spiaggia. «Caravaggio!», disse, sempre sorridendo. Gli feci segno di spegnere il motore. Si fermò scoppiettando e il silenzio ci sommerse improvviso, lasciandoci con il solo suono delle onde che lambivano lo scavo mentre la barca ondeggiava su e giù nel Mediterraneo.
Robinson – la Repubblicawww.repubblica.it › robinson