Lo stile non è militante

di Vincenzo Trione

 

I quadri di Poussin? «Nascono da qui», amava dire Bernini, mentre si toccava la fronte con l’indice. Potremmo ritornare a questa lontana immagine per accostarci alle creazioni di uno tra i più originali eredi contemporanei di Poussin: Giulio Paolini. Un autentico enigma, difficile da interpretare. Tra gli artisti più reticenti e riservati del nostro tempo, incline a non confessarsi, autore di opere che si sottraggono a ogni tentativo di «superficiale» descrizione. Un grande solitario dell’arte italiana del secondo Novecento, che si è accostato a movimenti (l’Arte Povera), ha fiancheggiato le poetiche del concettuale e ha dialogato con passaggi decisivi della storia dell’arte (dall’archeologia alla Metafisica), riuscendo sempre a difendere una propria ostinata autonomia. Un «incongregabile», lo avrebbe chiamato Alberto Savinio: insofferente nei confronti dei gruppi e delle tendenze.

Questo temperamento solitario viene celebrato ora in una mostra al Castello di Rivoli, curata da Marcella Beccaria, intitolata Le Chef-d’oeuvre inconnu, con rimando a uno tra i più celebri racconti di Balzac. Un evento organizzato alla vigilia degli ottant’anni dell’artista torinese (5 novembre), la cui inaugurazione è fissata per il prossimo 13 ottobre (fino al 31 gennaio). È stato delineato un percorso espositivo che muove da Disegno geometrico. Un’opera del 1960, che Paolini ha definito come il suo «primo (e ultimo) quadro»: un esercizio giovanile nel quale è già racchiuso il senso di una precisa filosofia. Realizzato con un tiralinee e un compasso sulla tela dipinta a tempera bianca, questo ci consegna una convenzionale squadratura della superficie rettangolare. Le diagonali che determinano il centro sono tracciate con l’inchiostro rosso; mentre le mediane, individuate tramite il compasso, sono incise con l’inchiostro nero. Paolini suggerisce così il proprio bisogno di spingersi verso una radicale spersonalizzazione, affidandosi a un gesto che si limita a indicare le condizioni dell’inquadratura da cui l’opera può nascere.

Da questo esordio si snoda un itinerario che rilegge oltre sessant’anni di produzione artistica, presentando, insieme con rare opere custodite dall’artista, lavori appositamente concepiti. Una Via Crucis in varie stazioni. Tra le tappe principali, nella prima sala, una grande installazione: Le Chef-d’oeuvre inconnu. L’intero ambiente diventa una versione tridimensionale, amplificata e percorribile del Disegno geometrico. Il pavimento, le pareti e lo spazio aereo sono attraversati dagli elementi essenziali di quella visione giovanile: le diagonali rosse e i nove punti segnati sul foglio. Nella stanza, ciascuno dei nove punti è scandito da un cavalletto e da una teca trasparente, che accoglie ritagli di libri conservati nello studio di Paolini. Il numero nove corrisponde anche al numero delle lettere che compongono il nome di Mnemosyne, la madre delle nove Muse. Oltre al Disegno geometrico, le quattro pareti della sala mostrano diverse variazioni sul medesimo soggetto del lavoro del 1960. Si giunge, poi, a Vertigo, un mosaico di opere prodotte dagli anni Novanta a oggi, accomunate dall’idea di «accadimento». Questa sala ospita anche Omega (1948-2018), in cui l’artista include episodi riconducibili alla propria biografia. L’epilogo: «Fine» senza fine. In questa sezione, Paolini allestisce «momenti» che sembrano annunciare un inevitabile addio, ma evocano anche un divenire continuo.

Involontario commento di questa antologica, il piccolo sillabario scritto da Paolini qui sopra in esclusiva per «la Lettura», dove, riprendendo un artificio già adottato in un suo volume (Dall’Atlante al Vuoto, edito da Electa nel 2010), ha individuato le cinque parole intorno alle quali ha costruito la propria lunga avventura.

1960-2020, dunque. Com’è cambiato il linguaggio di Paolini in questo arco di tempo? In fondo, egli è rimasto sempre lo stesso, impegnato in una sorta di viaggio d’impronta nietzschiana: «Dallo stesso allo stesso». Un acrobata in equilibrio tra ermetismo, materialismo e idealismo. Innanzitutto, Paolini supera ogni tentazione letteraria o descrittiva. Sorretto da una profonda consapevolezza teorica (testimoniata dai suoi libri, come Idem, Quattro passi e L’autore che credeva di esistere), portato a integrare come William Blake le sue immagini con le sue scritture critiche, rifiuta ogni invadenza di tipo soggettivistico. Non allude mai ai continenti dell’esteriorità né a quelli dell’interiorità. Evita ogni confessione privata: annulla l’io. Elabora un discorso rigoroso, indifferente nei confronti di ogni espressione, perché non pretende di comunicare niente. Come ricordava Italo Calvino in un saggio a lui dedicato, Paolini persegue «un’impersonalità assoluta, per sfuggire all’aborrita psicologia». L’artista, afferma lo stesso Paolini, deve «rinunciare al suo nome e alla proposta indecente dell’amplificazione sociale del suo ruolo». Non praticare discorsi diretti. Marcare una distanza dal mondo. Pensare lo stile come un’esperienza anti-politica, anti-ideologica, anti-militante. «È eretico sostenere che un artista debba trasmettere qualcosa di sé o del contesto al quale crede e dichiara di appartenere».

L’arte. È, questa, l’origine e, insieme, l’approdo della ricerca di Paolini. Che si manifesta nella volontà di interrogare continuamente la storia. E in una tensione sottilmente analitica. Per un verso, egli considera il suo mestiere come disciplina fondata non sul creare dal niente, ma sul «ritrovare»: ovvero, sul bisogno di misurarsi in maniera problematica e inquieta con il passato. Considera le proprie installazioni come altari innalzati a Mnemosyne. Sceglie, perciò, di attraversare ininterrottamente le stanze di un Museo Immaginario, recuperando iconografie, suggestioni, motivi: la statuaria greca e quella romana, Lotto, Canova, de Chirico.

Ascoltiamo Paolini: «Nel Museo, le ore, le opere, le persone appartengono a un istante che vive e si rinnova nell’illusione di sempre: fermare in una certa immagine la fine del Tempo. “Tutto scorre”, come sappiamo, ma nulla vieta di estendere lo sguardo altrove, senza luogo e senza data».

Per un altro verso, Paolini propone un’ossessiva meditazione sull’evento artistico in sé e sulle ragioni stesse del proprio fare, anteponendo il pensiero alle sensazioni. Animato da quella profonda «consapevolezza riflessiva di sé stesso e del proprio lavoro» di cui aveva parlato Giuliano Briganti, si concentra solo sulla pittura. Con i suoi quadri, non vuole far pensare ad altro che a questa totalità chiusa, compiuta e definitiva, cui non è possibile aggiungere niente. Ne rispetta il corpo. Infine, la riporta alla sua essenza, ai suoi fondamenti più umili e discreti. Ne esibisce le vestigia: le materie prime di cui è fatta. Un insieme di cose esili, ma necessarie. I supporti fisici dei quadri. E i resti della vita di un atelier. Telai, tele, cavalletti, legni, carte, colori, barattoli di colori. E, poi: stampe, fotografie, fotocopie, busti, calchi.

Nascono così opere che, osservava ancora Calvino, si dispongono in uno «spazio mentale», ascetico, senza ombre, metafisico. In questa dimensione, si respira un senso di cartesiana eleganza, purezza atmosferica, silenzio, inafferrabile rarefazione, incorporea leggerezza. Si dischiudono le porte di luoghi governati dalla figura della «squadratura», matrice e destino di ogni invenzione. Da quell’esprit de géométrie che, negli anni, si è fatto sempre più complesso, arricchendosi di invenzioni dinamiche. Distante da ogni anacronismo, sulle orme della lezione di de Chirico, Paolini, nelle sue opere più recenti, viola ogni impersonale simmetria. Dapprima esibisce l’unità dell’opera, che presto nega. Sapiente nell’effettuare prelievi e tradimenti, intreccia armonia e disarmonia, perfezione e imperfezione: ordine e negazione dell’ordine. Salda la dimensione apollinea con lo slancio dionisiaco. Salvaguarda la «divina proporzione», per poi infrangerla attraverso giochi di punti di vista e linee di fuga. Incurante dell’omogeneità della forma, la decostruisce. Rinviando al crollo di mondi, a imperi in frantumi, a scene costellate di fossili, a una polifonia di echi infranti. In particolare, Vertigo e «Fine» senza fine. Possibili regesti di un’apocalisse avvenuta. Cataloghi di apparizioni distratte. Forse, archivi sfiorati dal peso del tempo. O nature morte caotiche assemblate da un misterioso e sofisticato artista-filosofo, lontano allievo di Nicolas Poussin.

 

 

La Lettura – Corriere della Serawww.corriere.it › la-lettura