L’intervista al microbiologo Rino Rappuoli
di Elena Dusi
Nel film Contagion un nuovo virus venuto dai pipistrelli miete vittime in Asia. Gli scienziati cercano un vaccino e per saltare le fasi della sperimentazione una ricercatrice lo testa su sé stessa. Fantascienza. Ma se fossimo in quel film, lo scienziato Rino Rappuoli sarebbe fra i protagonisti. Padre dei vaccini contro influenza, meningite, pertosse, polmonite, medaglia d’oro al valore per la sanità, 68 anni, nato a Radicofani, è direttore scientifico della ricerca sui vaccini alla multinazionale Gsk. Mettere a punto un vaccino in un anno sarebbe un record per l’umanità. Ma lui crede che l’impresa sia possibile.
Non abbiamo terapie per il nuovo virus. Sarà un vaccino a salvarci?
«Siamo già al lavoro. L’epidemia mette a rischio milioni di persone.
Sappiamo che uccide soprattutto anziani e individui già malati. Ma perché, non sono persone per le quali impegnarsi?».
Che tempi prevede?
«Mettere a punto un vaccino in sé non è lungo. Nel 2013 contro l’aviaria l’abbiamo fatto in una settimana. A richiedere tempo sono i test clinici per garantirne efficacia e sicurezza.
Per un vaccino normale ci vogliono dai 15 ai 20 anni. In caso di emergenze si può prevedere una procedura molto più rapida. Ma difficilmente ci vorrà meno di un anno».
Chi è già sceso in pista?
«Molti laboratori nel mondo: aziende biotech capaci di mettere a punto un vaccino partendo dal genoma del virus, altri che studiano vettori virali per somministrarlo ai pazienti. C’è chi seguirà il metodo tradizionale, partendo dal coronavirus inattivato e inoculato. Ognuno sta facendo quel che gli riesce meglio. È in corso uno sforzo mondiale. Noi siamo disponibili a fornire gli adiuvanti».
Cosa sono gli adiuvanti?
«Vengono aggiunti ad alcuni vaccini per potenziarne la risposta immunitaria. Noi, essendo stati i pionieri, abbiamo esperienza e adiuvanti già approvati per l’uomo.
Siamo pronti a fornirli a chi metterà a punto il vaccino, così uniremo le forze e risparmieremo tempo».
Abbiamo mai fatto un vaccino in un anno?
«Per Ebola, in emergenza, abbiamo impiegato 5 anni. Ma abbiamo grandi margini di miglioramento».
In che modo?
«Questa volta, rispetto al passato, abbiamo un regista».
A chi si riferisce?
«A Cepi, o Coalition for Epidemic Preparedness and Innovations. È una non profit norvegese nata nel 2015 ai tempi di Ebola proprio per mettere a punto un vaccino. Oggi si occupa di tutte le epidemie emergenti. Sono loro a coordinare gli sforzi e distribuire i fondi ai vari laboratori, a seconda delle loro competenze. È essenziale non duplicare gli sforzi».
Lei cosa farà?
«Per ora ci limitiamo agli adiuvanti.
All’epoca della Sars, nel 2003, fummo i primi a partire con il vaccino perché nessuno aveva le nostre capacità. Ne ottenemmo uno, che iniziò la prima fase della sperimentazione sull’uomo. Poi il virus fu confinato e non servì. Meglio così. Ma oggi molto è cambiato. Diverse biotech sanno usare le tecnologie che sono emerse nel frattempo. Noi rischieremmo di rifare il loro stesso lavoro».
Il vaccino contro la Sars non può essere un punto di partenza?
«No. Il nuovo virus e la Sars condividono il 78% del genoma. Sotto al 90% conviene ripartire da capo».
Questa epidemia la spaventa?
«Non so fare previsioni, finora non sembra che il virus sia mutato molto, ma il futuro resta un’incognita. Siamo ben più di 7 miliardi, se anche la letalità si mantenesse bassa, potremmo avere comunque tantissime vittime. Penso che sia giusto darsi da fare per il vaccino».