Il virus nelle ferite del Sud

di Sergio Rizzo
Il Sud sta esplodendo. Ecco l’ennesimo dramma che questa tragica epidemia ci sbatte in faccia. Senza mezzi termini. «Al Sud si rischia il collasso sociale», diceva già pochi giorni fa il ministro del Mezzogiorno Giuseppe Provenzano. Nelle stesse ore in cui i servizi di intelligence lavoravano al rapporto riservato, di cui scrive oggi Alessandra Ziniti a pagina 8, che conferma per filo e per segno quella tragica prospettiva. Il segnale viene da episodi inquietanti che si moltiplicano con frequenza impressionante. Persone che subiscono lo scippo della borsa della spesa all’uscita dal negozio, irruzioni di gruppi organizzati nei supermercati per prelevare generi alimentari, con le rapine alle farmacie che non diminuiscono come il resto dei reati. Succede dalla Campania alla Sicilia, e le ragioni sono ignote soltanto a chi non vuole vedere la realtà. Sono nelle stime e nei numeri terrificanti delle famiglie che vivono, ma sarebbe decisamente più corretto dire sopravvivono, con il lavoro nero e le occupazioni saltuarie. Interi strati della popolazione nelle Regioni meridionali sbarcano il lunario così, alla giornata. Senza contratti, senza tutele, senza garanzie. Impegnati anche in attività non di rado abusive.
Una sterminata area sociale esposta alle conseguenze istantanee di una crisi come questa. Da settimane su questo giornale denunciamo come l’enorme bacino della precarietà, che in determinati settori come il turismo è la regola, sia il più brutalmente colpito dalla paralisi dell’economia, dei trasporti, dei servizi. Ma mentre i precari regolari, come quanti sono costretti a lavorare con il travestimento delle partite Iva, almeno si possono vedere, chi invece è immerso in un colore che varia dal grigio scuro al nero profondo è invisibile. Invisibile e disperato.
Così, se al Nord gli scioperi fermano le fabbriche perché manca la sicurezza con il paracadute della cassa integrazione pronto ad aprirsi, e per i lavoratori autonomi si discute se il bonus di 600 euro sia o meno un’elemosina, per molti invisibili al Sud non c’è neppure il pietoso obolo di Stato. E la tensione sociale cresce sempre più, aggravando in misura imprevedibile una situazione già assai difficile: fertilissima anche per la criminalità organizzata.
Il Mezzogiorno si spopola da anni perdendo le risorse migliori e più giovani, ed esattamente come all’inizio degli anni Cinquanta la ricchezza media prodotta da ciascun abitante meridionale è ferma poco sopra la metà di quella di un suo concittadino del Centro Nord. La qualità dei servizi pubblici è modesta, e in molti casi pessima. Di conseguenza, anche la qualità della vita. Il livello della sanità, tranne rare eccellenze, non è paragonabile a quello delle Regioni dei Nord: al punto da trasformare in autentico terrore la giusta preoccupazione per il possibile dilagare del coronavirus anche al Sud.
La frattura di un Paese già diviso in due è destinata dunque a diventare ancora più spaventosamente profonda. Se non si interviene prima di subito.
E qui c’è un problema mica da ridere. Come si fa a mettere in cassa integrazione un posteggiatore abusivo che non può sfamare i figli non avendo più auto da posteggiare? Un caso forse estremo (ma mica tanto), che comunque rende bene l’idea. Il sentiero, insomma, è stretto e tortuoso. E conduce inevitabilmente a un bivio. Agire sul reddito di cittadinanza allentandone i vincoli per allargare il più possibile la platea dei beneficiari, oppure distribuire direttamente aiuti alle famiglie più povere e bisognose. Correndo, ovviamente, tutti i rischi del caso.
Su questo dilemma risulta che il governo Conte stia ragionando. Peccato che i tempi dei ragionamenti politici siano assai poco compatibili con quelli dello stomaco. I numeri dicono tutto. Con la crisi iniziata nel 2008 il baratro della povertà assoluta al Sud si è ingigantito: nel 2007 lì dentro c’erano il 5,8 per cento delle famiglie meridionali; nel 2012 sfioravano il 10 per cento. Quasi il doppio del Centro Nord, con un aumento del 70 per cento.
Trecentocinquantamila nuclei familiari precipitati in quel girone infernale nello spazio di cinque anni appena. E questa botta rischia di essere ben più crudele.
Tante cose, quando l’emergenza sarà finita, dovranno cambiare. Sarà assolutamente necessario, per dirne una, ridiscutere il ruolo e il confine dei poteri delle Regioni. Ma sarebbe imperdonabile se finalmente la politica non si rimboccasse la maniche per affrontare il problema del Sud con la serietà che merita. Ed è finora mancata: per responsabilità di tutta la classe dirigente. Anche quella meridionale.
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