“Lottiamo con i nostri fantasmi”.

 Riportare alla luce episodi di storia americana, spesso chiusi nei cassetti della memoria. Riallacciarli ad avvenimenti più recenti. Partire dai fatti di Detroit del 1967 e farne un film, spiegare cosa sia accaduto in quei caldissimi giorni d’estate, per far comprendere che cosa sia avvenuto anche nei disordini di Ferguson del 2014 o quelli più recenti di Charlottesville. È la regista Kathryn Bigelow a voler mettere controluce vicende opache: «Ho scelto di girare il film “Detroit” proprio in seguito alle rivolte di Ferguson – spiega Bigelow – Le proteste avvenute a più riprese dopo l’uccisione di Michael Brown, un teenager di colore che aveva rubato delle sigarette. Fu ucciso da Darren Wilson, un agente che non è mai stato punito». Detroit, Ferguson, Charlottesville. Per questo il film, da pochi giorni nelle sale americane con una distribuzione limitata, e che in Italia sarà presentato alla Festa del cinema di Roma, in cartellone dal 26 ottobre al 5 novembre, è destinato a far discutere. «Ritengo che l’obiettivo dell’arte sia creare un movimento nelle coscienze per il cambiamento» è il credo della regista «ma non puoi cambiare nulla finché non hai acquisito la consapevolezza di ciò che accade». “Detroit” racconta il degrado urbano e la disperazione economica dell’America dei quartieri poveri, a maggioranza afro-americana, la nascita dei ghetti e i loro rapporti difficili con la polizia, prevalentemente bianca. Non ci sono buoni o cattivi, ma un conflitto sociale e razziale che ha creato frustrazioni e risentimenti soprattutto nelle fasce meno agiate della popolazione, di ogni etnia. «Non so se sono la persona ideale per trattare un argomento come questo» dice la Bigelow, californiana, classe 1951, ex moglie di James Cameron «ma stiamo parlando di fatti avvenuti cinquant’anni fa, che nessuno ha più ricordato. Questa vicenda andava raccontata e spero che da questo film nasca un nuovo dialogo negli Stati Uniti. Per umanizzare una situazione che è quasi rimasta invariata da cinquant’anni». A Detroit, in una tipica palazzina tranquilla, nella periferia urbana, vive ancora David Senak: il suo nome è legato all’episodio di razzismo che sconvolse la vita di Detroit. L’ex poliziotto Senak è il simbolo della terribile notte dell’Algiers Motel, fra il 25 e il 26 luglio 1967. Una storia non molto conosciuta al di fuori degli Stati Uniti, che tuttavia può aiutare a capire l’America di oggi, quella degli scontri di Charlottesville. Dopo avere fatto irruzione nel motel, Senak e un gruppo di colleghi uccisero a colpi di pistola, dopo averli selvaggiamente picchiati, tre giovani afroamericani fra i 17 e i 19 anni. Altri sette vennero feriti. Per quei fatti, né Senak né gli altri agenti del dipartimento di polizia di Detroit furono mai ritenuti responsabili. Quell’episodio fu un momento della grande sommossa avvenuta nella principale città del Michigan, scattata dopo un raid della polizia in un locale notturno e sfociata in una delle guerriglie urbane più letali della storia degli Usa. Negli scontri morirono 43 persone, 1189 rimasero ferite, più di 7200 vennero arrestate e vennero distrutti oltre 2000 edifici. Una vicenda rimasta opaca, su cui Kathryn Bigelow cerca di mettere luce con il film interpretato da John Boyega (“Star Wars – Il risveglio della forza”), Anthony Mackie (“Capitan America, Civil War”) e Will Poulter, nei panni del poliziotto al centro della vicenda. Prima di oggi nessun regista si era avventurato in un terreno così scomodo. La storia era stata raccontata solo dagli atti giudiziari, dagli articoli di giornale, dai servizi tv locali, ma ora il film della Bigelow vuole rivolgersi a un più vasto pubblico. «Ho sentito da parte dei cittadini un grande sostegno, una grande emozione» dice la regista «anche quando visitavo la città per fare ricerche sui quei fatti. Ho incontrato i sopravvissuti e ho percepito la voglia di fare sentire la loro voce». Bigelow ha girato la maggior parte del film e tutte le fasi dell’Algiers Motel in ordine cronologico, utilizzando fino a quattro macchine da presa in contemporanea, in modo da restituire l’immediatezza della situazione vissuta dai protagonisti della storia. «Dopo due o tre ciak», spiega la regista premio Oscar per “The Hurt Locker”, «avevo raggiunto il risultato, spontaneo e onesto». Un risultato per lanciare un messaggio: «Da troppo tempo i problemi razziali vengono considerati astratti e non reali, da chi non li vive sulla propria pelle ogni giorno»
La Stampa –