L’Italia può stare dentro le alleanze anche senza essere irrilevante

Marco Follini
Nel lontano inverno a cavallo tra il 1978 e 1979 il segretario della Dc Benigno Zaccagnini fu ricevuto da Jimmy Carter alla Casa Bianca. Due sere prima si tenne una cena di gala e Zbigniew Brzezinski, all’epoca consigliere del presidente americano, gli chiese cosa pensasse del progetto di installare nuovi missili da crociera sul nostro territorio in risposta ai missili disposti a est dai sovietici. Lì per lì il leader democristiano gli rispose che nel nostro paese questa decisione non sarebbe stata capita, e tanto meno apprezzata.

Come è noto, appena qualche mese dopo il parlamento italiano votò invece a favore di quella installazione. E ancora tre anni dopo, pur tra le proteste indignate del popolo di sinistra, quei missili presero posto nel nostro territorio. Deputati e senatori democristiani all’epoca votarono disciplinatamente per quella decisione, con qualche timido mugugno e nessun pollice verso.

Il fatto è che ogni interpretazione, ogni difformità, ogni obiezione, perfino ogni sfumatura veniva per così dire inscritta in un contesto più largo che definiva il carattere e i limiti della sovranità di un paese in ragione delle sue alleanze e, in modo ancora più ampio, della sua visione del mondo.

O almeno, di quel mondo.

Anche quella volta fu il tempo a fare la differenza. Il tempo breve che correva tra una risposta data di getto, con la pancia e col cuore per così dire; e una risposta parlamentare offerta più avanti, dopo aver soppesato attentamente i pro e i contro, le obiezioni e le conseguenze. Ancora più avanti si sarebbe stagliato il tempo assai più lungo e denso che ci avrebbe condotto fino alle propaggini del muro di Berlino e infine, anni dopo, al suo sbriciolamento.

Oscillazioni e lealtà
Fin dal Dopoguerra la politica estera italiana conobbe le sue oscillazioni e praticò le sue forme di lealtà. I democristiani furono atlantisti, venendo a capo di molte delle loro stesse obiezioni di una volta. I socialdemocratici e poi i repubblicani furono ancora più atlantisti.

I socialisti compirono in una decina d’anni il percorso da Mosca fin verso Washington. E i comunisti impiegarono un trentennio per dire che in fondo dalla parte della Nato si era più protetti. Ognuna di queste evoluzioni ebbe bisogno di fare i suoi conti con lo scorrere dei giorni, dei mesi e degli anni. Degli anni, soprattutto.

Tutto il tempo che ci volle all’epoca per maturare nuove convinzioni, aggiornare la propria geopolitica, capire un po’ meglio il mondo, rese infine quei cambiamenti più solidi e duraturi. Furono gli anni che impiegò Pietro Nenni a restituire il premio Stalin che gli era stato conferito dopo la guerra. E gli anni che impiegò Aldo Moro a cercare di far dimenticare il voto che non diede (sia pure per ragioni familiari, privatissime) al trattato con cui fu istituita l’Alleanza atlantica. Passaggi sofferti e controversi. All’indomani dei quali però si intravedeva un approdo pressoché definitivo. Non fosse altro per la fatica che era costata l’arrivare fin lì.

La fretta del presenteOra invece tutto s’è fatto più veloce, quasi frenetico. E questa velocità serve appunto ad alleggerire il peso delle scelte, a renderle più volatili, a volte quasi più frivole. Non c’è più l’ideologia a dividere i mondi in competizione degli anni della Guerra fredda. Ma restano le fondamentali differenze tra sistemi politici e istituzionali che non si assomigliano affatto. E le cui frontiere, però, vengono attraversate dagli eroi dei nostri giorni con passi disinvolti e frettolosi. Anche troppo, viene da dire.

Valgano per tutti due esempi paradigmatici. Uno è Matteo Salvini che dopo aver indossato le felpe di Vladimir Putin in tutti i colori e le varianti possibili e immaginabili, e dopo aver offerto lo zar al mercato delle scempiaggini proponendo di scambiarlo al prezzo di «due Mattarella», ha pensato bene a questo punto di farsi piuttosto paladino degli ucraini, fino a organizzare un viaggetto ai loro confini così da rendere la sua solidarietà ancora più memorabile. Con gli effetti che peraltro si sono appena visti qualche giorno fa. L’altro è Giuseppe Conte che oggi si fa paladino del rinvio delle spese per armamenti che lui stesso a suo tempo aveva approvato, e che opera questo singolare testacoda dopo che un paio di anni fa aveva addirittura messo a disposizione del presidente Donald Trump e del suo ministro della Giustizia la irrituale collaborazione dei nostri servizi per accertare se mai l’Italia di prima avesse cercato di dare una mano al presidente di prima.

Dilettantismo, si dirà. E furbizia, sia pure di cortissimo respiro. Ma per l’appunto è il respiro che fa la differenza.

La fatica delle scelteFino alla caduta del Muro la nostra politica estera era pressoché obbligata. E quegli attraversamenti di confine, all’epoca, costavano fatica e implicavano rischio. Non che mancasse una certa dialettica. Nei partiti e nelle coscienze. Nella Dc ad esempio l’ortodossia atlantica veniva celebrata a bassa voce, e qualche volta perfino blandamente contraddetta. Salvo cercare poi di far maturare le scelte e le convenienze della politica spicciola rigorosamente all’interno di quel contesto. Così, quando si trattò di fare l’alleanza con il Psi venne buona l’apertura dell’America di John Fitzgerald Kennedy verso nuovi scenari. E quando si iniziò a parlare con il Pci si cercò di farlo, per quanto possibile, senza contraddire i princìpî della geopolitica dell’epoca. Con minor fortuna, in questo caso.

A Moro, allora presidente del Consiglio, la Confindustria tedesca fece discretamente presente che sarebbe stato un «bel gesto» se la giustizia italiana avesse rilasciato Herbert Kappler. Un gesto che all’occorrenza sarebbe stato adeguatamente remunerato. Messaggio a cui egli oppose un netto, risoluto e quasi scandalizzato diniego. Senza però andare oltre. Erano i vincoli della Realpolitik che consentivano allora di scegliere di volta in volta i comportamenti più giusti e imponevano però sempre di non scivolare verso le alleanze più sbagliate.

La stessa scelta degli euromissili, come s’è detto, costò all’inizio una certa fatica. Per non dire di tante altre occasioni nelle quali i doveri delle alleanze fecero attrito con i sacri princìpî – o con qualcuno di essi. E senza trascurare le piccole convenienze che ciascuno dei leader dell’epoca cercò di guadagnare a sé stesso. Valga per tutti l’esempio di Amintore Fanfani che a ogni elezione quirinalizia mandava il fido Ettore Bernabei a parlare con l’ambasciatore russo per propiziarsi (senza troppa fortuna) il consenso dei grandi elettori del Pci.

Poi però si finiva quasi sempre per trovare il punto di saldatura tra tutte queste cose. E una volta salvata l’anima delle proprie convinzioni e saldato il conto delle proprie convenienze, diventava chiaro che non si poteva oltrepassare una sorta di immaginaria linea rossa di quell’epoca. Il che valeva a dire rispettare limiti e confini che quel mondo aveva dato a sé stesso molto prima di darli a noi.

Quei limiti e confini scandivano il tempo (e la fatica) dell’epoca. Ma per quanto potessero vincolarci ci rendevano anche protagonisti. Poiché appunto era solo nel contesto internazionale, standovi ben dentro, che un paese poteva dare un peso alle proprie ragioni. Rispettando quelle regole e senza mai illudersi più di tanto di poterle riscrivere a proprio uso e consumo.

Dentro e fuori

A distanza di pochi decenni, invece, il rapporto tra il dentro e il fuori si è come capovolto. E una volta guadagnata la libertà di muoverci (quasi) a tutto campo ne abbiamo usato e qualche volta abusato per attraversare una discreta quantità di frontiere. Salvo trovarci poi al punto di prima, e molte volte anche più indietro. È rimasto il vincolo europeo, fin qui. Se non altro per ragioni di bilancio. Ma tutt’intorno ci si è cominciati a muovere con una disinvoltura degna di miglior causa. Fino all’approdo alle sponde del populismo, che non sembra contemplare più di tanto il valore delle alleanze. Salvo magari fare eccezione per i propri simili, di tutti i colori e tutte le etnie politiche del mondo.

Così ora forse è l’Ucraina che ci riporta al punto di prima. E ci fa precipitare nuovamente in un contesto mondiale assai turbolento e tale da decidere le nostre sorti perfino drammaticamente. Peccato che noi nel frattempo ci siamo abituati alla variabilità delle situazioni e forse anche delle alleanze, e alla fantasia dei racconti e delle velleità. Illudendoci di poter fare a modo nostro ora che finalmente sembravano – sembravano – essersi allentati i vincoli del passato.

La realtà è che quei vincoli a questo punto sono semmai ancora più stretti. E la nostra possibilità di allentarli minimamente resta ancora strettamente legata alla nostra capacità di riconoscerli e rispettarli. Non sembri un gioco di parole. In passato i grandi partiti dell’epoca potevano affrontare qualche disputa nel recinto della loro metà campo perché non facevano mai finta che quel recinto non esistesse. Anzi. Una gran parte delle loro energie venivano spese nel cercare di far capire agli alleati più ingombranti che nel fare a modo nostro non si voleva cercare una via di fuga ma semmai trovare la traccia nascosta di un inedito percorso comune.

È quella dialettica che andrebbe ora ricostruita. Cercando di tenere insieme la realtà e l’immaginazione, la lealtà e il realismo. Onorando gli impegni, magari dopo averli rinegoziati. E prendendo tutto il tempo che serve per cercare di cambiare qualcosa. Dato che anche ai nostri giorni nulla cambia mai troppo in fretta.

 

 

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