l nostro racconto dal Paese di domani.

 

L’ho visto qualche volta scivolare via dalla stanza di direttore, senza fare rumore, come un’ombra, come se davvero dovesse afret tarsi per prendere l’ultimo volo della sera, il titolo del suo romanzo uscito postumo. Quan do fu nominato direttore de “L’Espresso” nel 1991 Claudio Rinaldi aveva 46 anni, aveva già detto di no a Silvio Berlusconi, frmò il primo editoriale il 14 luglio, mentre l’Italia si preparava ad andare al voto politico nell’anno successivo. Poche parole per denunciare «il chiacchiericcio sulle riforme insistente e vacuo». E le righe fnali che ripubblichiamo in coperti na, con la dedica «oggi come sempre all’Italia migliore, dovunque essa lotti per non lasciarsi sofocare». Ho ripensato a lui ora che ri cevo il testimone dai direttori con cui ho lavorato, da Giulio Anselmi che mi assunse nel 2001, a D a n i e l a Hamaui, Bruno Manfellotto, Luigi Vicinanza, fno a Tommaso Cerno, che ha rilanciato il giornale e che è stato chiamato alla condirezione di “Repubblica” con il direttore Mario Calabresi. Quando cominciai a scri vere sull’Espresso, nella palazzina liberty afacciata su villa Borghese c’era il parquet ai pavimenti, nelle stanze si fumava e si rideva, la sera della chiu sura arrivava la pizza. Io ero con Guido Quaranta, accanto c’era Giampaolo Pansa, in un’altra stanza Edmondo Berselli contemporaneamente scriveva di Easy Rider e di Gianfranco Fini, vedeva in tv la Juventus e ascol tava un mp3 di Lucio Battisti. Berlusconi dominava la scena. Il centro-sinistra aveva chiuso in una parentesi la sua migliore esperienza, il governo dell’Ulivo di Romano Prodi. Da allora in poi mi sono trovato per anni a viaggiare da una parte all’altra dell’Italia tra pullman, navi, treni, camper, a seguire congressi, primarie, fusioni, scissioni, piazze, gazebo, gi rotondi, leopolde, no euro-day, no B.-day, vafa-day… Oggi l’Italia è di nuovo alla vigilia di un voto politico, sospesa: non sappiamo chi governerà, con quali alleanze, con quali pro grammi, con quale idea di Paese, come ci racconta Ilvo Diamanti. Buio pesto. Il chiacchiericcio è aumentato, è un frastuono, dilaga nei talk, sui social network, sui profli instagram. Ed è accresciuta, agli occhi degli elet tori, l’inutilità della politica sulle loro vite, la vanità delle vanità dei protagonisti e del tutto. Innovatori e conservatori, ex rottamatori e anti-politici a loro agio nel Palazzo che volevano scoperchiare, sono uniti solo in que sto. Sembrano tutti Guido, il personaggio di Marcello Mastroianni in “Otto 1/2” di Federico Fellini: «Non ho proprio niente da dire, ma voglio dirlo lo stesso!». «La gente crede che noi possiamo fare e disfare tutto, per di più impu nemente. E invece non è vero niente. Lei m’ha chiesto cosa penso della crisi dello Stato. Ecco cosa penso: che il potere esecutivo, o meglio la classe politica che è al vertice del potere esecutivo, ha limitate possibilità di intervento e di comando», spiegava il presidente del Consiglio Aldo Moro a Eugenio Scalfari sull’Espresso nel 1965. «È vuoto il palazzo del potere», titolava il primo numero di “Repub blica” il 14 gennaio 1976. Eppure quella politica contava. Era rappresentativa, a volte sofocante. Era tutto, oggi è il nulla. La crisi dello Stato è diventata crisi della politica e si è trasformata in crisi della democrazia. E nella crisi democratica perde di senso la parola sinistra, vince la destra nelle sue molteplici forme. Non solo in Italia. In Europa le leadership tradi zionali faticano a reggere, perfno la più solida, quella di Angela Merkel, e brilla – ma solitaria – la stella di Em manuel Macron. L’Europa muore per mancanza di leadership politiche, di «efmero, passeggero, provvisorio», ha detto papa Francesco una settima na fa in Vaticano al convegno “(Re) Tinking Europe”. «La politica non è l’arte dell’improvvisazione. Essere leader esige studio, preparazione ed esperienza». Negli Stati Uniti di Do nald Trump la democrazia si è rivoltata contro se stessa, la cellula malata si alimenta della parte sana, mentre torna l’incubo terrorismo. Restano Vladimir Putin, che condiziona le elezioni altrui, e Xi Jinping alla guida della Cina che nel 2019 supererà gli Usa nella spesa per ricerca e sviluppo e sarà leader nell’intelligenza artif ciale, nella robotica, nel biotech e nel biopharma. Nella sfda del futuro le autocrazie battono le democrazie. Della crisi della democrazia fa par te anche la difcoltà dei giornali e dei media tradizionali. Sono aggrediti, circondati dalla sfducia di chi pensa di fare da sé, di potersi informare da solo. È un’illusione: si parte per fare il contropotere e si fnisce per creare un nuovo conformismo, utile ai potenti che da sempre sognano un mondo senza controllo, senza critica, senza domande scomode. Senza giornalisti. Eppure l’informazione è un bene prezioso. E a rischio, se si pensa ai 256 giornalisti che in Italia nel 2017 hanno subito atti di intimidazione, secondo i dati dell’osservatorio “Ossigeno per l’informazione”. O ai giornalisti sotto scorta perché minacciati dalla mafa, dalle logge sempre presenti, ieri la P2 oggi chissà. O ai tanti ragazzi che stu diano per fare questo mestiere, tra mille sacrifci personali, sottopagati, al pari dei loro coetanei, collaboratori occasionali, consulenti senza rinnovo, talenti sprecati. In un momento in cui tutte le parole rischiano di essere bronzi che risuonano, fare giornali smo vuol dire recuperare peso, memoria, profondità. Dare voce alle anime salve «in terra e in mare» di cui hanno cantato Fabrizio De André e Ivano Fossati, «i paesi di domani che sono visioni di anime contadine in volo per il mondo»: i migranti senza nome che muoiono per arrivare in Italia, i giova ni italiani all’estero, quelli che restano e creano, inventano il nuovo, fanno impresa, crescita, dignità. Vuol dire restituire laicità: «Essere laici signifca sentirsi partecipi di una comune uma nità prima ancora di aderire a un qualsiasi credo religioso; laico è colui per il quale le cose ci sono nella loro propria identità», ha scritto un intellettuale cattolico, Pietro Scoppola. Oggi laicità signifca non arruolarsi in un integralismo, religioso o politico, ma anche rompere il Cerchio, il circolo vizioso del web, in cui ognuno è solo a dialogare con se stesso, in un’ossessiva chiusura alle ragioni degli altri, nella stanza dei propri pregiudizi. Per questo chi combatte la buona battaglia dell’informazione rende un servizio alla politica e alla democrazia. C’è un racconto dell’Italia che presen ta il nostro paese come il paradiso in terra: tutto va bene basta crederci, serve ottimismo! E uno, speculare, che predica: tutto va male, l’Italia è un paese di corrotti, evasori, farabutti, non c’è nulla da fare! Si combatteranno in campagna elettorale, in un confron to che si annuncia avvilente e che metterà a dura prova le istituzioni. C’è una terza strada, quella più difficile del cambiamento. Signifca che si può fare qualcosa per cambiare. E che le cose vanno cambiate, perché non tutto va bene. È la realtà che ti interpella, ma teria incandescente, da maneggiare con cura e con ironia. Fare un settimanale è setacciare la sabbia del quotidiano alla ricerca di una pietra preziosa. E ofrire un contesto per sfuggire alla frammentazione, alla dittatura dell’i stante, dell’ultima scena che ti distrae dalla trama del flm. Se capiterà di fare un errore, è accaduto, accadrà di nuo vo, non esiteremo a riconoscerlo, ma non per questo si può chiedere di eliminare il giornalismo di inchiesta, indipendente da palazzi, centri economici, agenzie, agenti, addetti di tutti i poteri. È il nostro modello da quando Eugenio Scalfari la mattina del 22 settembre 1955 si trovò con Arrigo Benedetti per la prima volta all’indirizzo di via Po 12, quattro stanze e uno stanzino più la toilette: «Eravamo agitati, emozionati, felici, impauriti allo stes so tempo. Sembrava di partecipare al varo d’una nave, della quale nessuno conosceva con esattezza forma, di mensioni e strutture». Dieci anni dopo rendeva omaggio al pubblico «giovane, moderno, privo di tabù ma anche privo di cinismo, pessimista forse sul presente ma profondamente fiducioso nell’avvenire del Paese». Mentre scrivo queste righe mi arriva la richiesta di abbonamento di Alessio Di Stasio che così vuole impiegare il bonus per i suoi 18 anni. La nave dell’ Espresso, immaginata e poi costruita da Scalfari che ancora oggi la orienta con mano sicura e curiosa del nuovo, ha attraversato in questi 62 anni mari tempestosi, la grande bonaccia delle Antille non l’abbiamo mai incontrata e se è suc cesso siamo stati noi a increspare la palude. Siamo ancora qui. Intatta è l’emozione e l’urgenza di dare spazio e voce all’Italia migliore, il nostro racconto. Il racconto dell’Espresso. Oggi come sempre.
L’Espresso.
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