Neanche il tempo di annunciarla che già le avevano fatto pelo e contropelo: il logo fa schifo; il nome in inglese non le si addice; i lavoratori dello spettacolo non sono stati coinvolti; il bando pubblico non è stato diffuso a sufficienza, e via di seguito con il campionario delle critiche che accompagnano le iniziative dello Stato quando mette mano al digitale, tanto più che in questo caso lo scetticismo precedente alla nascita della “Netflix della cultura” è stato talmente unanime che la piattaforma ITsART, ora che è diventata realtà, pare abbia perso l’attenzione anche degli unici che gliel’avevano data, tra imprenditori, esperti di media, politici, addetti ai lavori e commentatori twittaroli. Nulla di più promettente, dunque, per chi si fida poco dei giudizi affrettati dei social e preferisce toccare con mano prima di giudicare. Ebbene, pur con l’impegno dei più energici bastian contrari, pare proprio che quelle osservazioni apparentemente secondarie rispecchino tutte le criticità della piattaforma.

Annunciata in Aprile 2020 dal ministro Franceschini – quindi in una condizione in cui la fruizione casalinga di qualsiasi contenuto pareva l’unica prospettiva di consumo – ITsART è stata lanciata definitivamente pochi giorni fa, cioè nel periodo probabilmente peggiore che si potesse scegliere, con gli ottimismi del caldo e degli indici RT che indicano una graduale ripresa di tutte le attività culturali. Non serve allora un professionista del marketing per ritenere quantomeno azzardata una partenza nel momento in cui sale e teatri stanno lentamente riaprendo e i concerti all’aperto riempiono i programmi estivi di ogni Comune; così come, ormai diversi mesi fa, non servivano i Master per sostenere che di loghi ne avessimo visti di migliori e di nomi sentiti di più efficaci: per commentare il primo bastavano gli occhi, per giudicare il secondo la logica, perché proporre un catalogo di musei, film, concerti e opere italiane con un calembour in lingua inglese è cosa che va oltre ogni possibile strategia comunicativa.

Si dirà che l’intento potesse essere anche quello della promozione del nostro patrimonio oltre confine, peccato però che la manciata di utenti residenti all’estero e interessati alla piattaforma, almeno fino ai giorni scorsi, al momento dell’accesso sia stata bloccata dall’avviso “Sorry, you can’t register for the service in your country at the moment”. Problema di diritti, probabilmente, ma allora perché non dichiararlo in maniera esplicita? E ancora, perché la scelta del nome in inglese se ciò che vendi è materiale italiano destinato ai residenti in Italia? Classico velo steso, infine, sulla pessima scelta di accostare ITsART a Netflix in sede di presentazione del progetto: non solo la nostra piattaforma non ha niente da spartire con Netflix in termini di servizio (su ITsART si pagano i contenuti desiderati, su Netflix si paga un abbonamento) ma oltretutto la specifica “della cultura” fa capire che tipo di approccio intellettuale alberghi ancora in certi operatori del settore. Se ITsART è “la Netflix della cultura”, allora i film e le serie della piattaforma americana cosa sono? Pure ammettendo non siano cultura, Franceschini dovrebbe spiegarci in quale universo un concerto di Baglioni, evento inaugurale dell’iniziativa, debba essere considerato “culturale” più di un film di Scorsese.

Il logo di ITsART

Sorvolando sull’aspetto assai più delicato del partner selezionato dal Ministero (ITsART è partecipata da Cassa Depositi e Prestiti e da CHILI, distributore di film e serie tv in streaming), è bene entrare nel dettaglio dell’offerta per capire realmente se si tratti di un’effettiva ciofeca o di una piattaforma valida per quanto poco valorizzata da ciò che le è stato costruito attorno. A fare i pignoli, lo si è già capito, di problemi dentro ITsART se ne trovano in abbondanza, e l’impressione è che tra Ministero e CHILI abbiano fatto pochi sforzi per evitarli. Siamo di nuovo, in altre parole, dalle parti di un approccio alle immagini il più distante possibile da quello che una piattaforma semi-statale dovrebbe adottare. La parte del catalogo che contiene film di finzione e documentari è in questo senso emblematica già dal nome, “Storie”. Mani nei capelli: promuovere, almeno negli intenti, la bellezza del cinema italiano riconducendo i film a delle generiche “Storie” – per giunta in un momento in cui una minima educazione iconografica parrebbe più che mai urgente per evitare censure e polemiche acchiappa allocchi – è fatto assai indicativo dell’approccio stantio cui si faceva cenno. Questioni anche qui di lana caprina, intendiamoci, ma se tre indizi fanno una prova, tra scivoloni grafici ed etichette appioppate senza criterio, l’impressione è che si faccia una gran fatica a capire lo spirito alla base dell’iniziativa. Per accontentare noi schizzinosi sarebbe allora bastato, visto che la categoria teatro e musica è stata denominata “Palco”, un semplice “Sala” o un banale “Cinepresa”, entrambi adatti sia ai documentari che ai film di finzione. Già troppa specificità per l’utente di riferimento? Evidentemente sì, per la considerazione che ne ha il Ministero.

È però venendo al venale che il catalogo di ITsART delude anche lo spettatore meno esigente. Il modello è proprio lo stesso di CHILI, con il particolare non secondario che, in questo caso, le esclusive proposte sono soltanto 29 su più di 700 contenuti, e su questo non ci sono sale o cineprese che tengano. Chi pagherebbe mai cinque euro per un film di sessant’anni fa in streaming, quando Youtube e RaiPlay lo mettono a disposizione gratuitamente? E ancora, chi comprerebbe su ITsART un contenuto già presente su CHILI a un prezzo inferiore? Fuori dal cinema, che sta affrontando la questione da decenni, emergono inoltre per le altre pratiche performative tutti i dubbi da sempre connessi all’adattamento dei prodotti culturali: se infatti serie tv e film vengono ormai pensati sul piano della messa in scena in funzione di una visione su tablet o PC, può dirsi lo stesso per un’opera teatrale o per un museo? Qual è, se c’è, la differenza tra l’osservazione di un’opera d’arte nella galleria di Google e quella legata alla galleria virtuale di un museo italiano? È una differenza che vale il costo di un “biglietto”? In tutto questo, il concerto di Baglioni annunciato in pompa magna costa 13€, cioè poco più di un film nelle sale IMAX di ultima generazione. Mai vista un’inaugurazione a pagamento, ma in nome della cultura, per carità, si fa questo e altro. Nel catalogo di ITsART si trovano peraltro anche diversi contenuti gratuiti con o senza pubblicità, servizio che in tema di musica barocca rimanda a ciò che Rai5 offre da anni senza tante fanfare. Questione delicata, di fatto, anche questa della Rai, che in un primo momento sembrava dover essere coinvolta per poi non mettere mano nel risultato finale. I motivi della mancata collaborazione? Non è dato saperli, di certo avrebbe potuto rappresentare un’occasione di crescita produttiva per entrambe, ma evidentemente non è questo il fine della Netflix del Ministero.

Il concerto di Baglioni è stato pubblicizzato attraverso una descrizione wagneriana che molti commentatori non hanno esitato a sbeffeggiare. Ecco un estratto: “Opera pop-rock sinfonico contemporanea, arte totale, teatro totale, estetica cinematografica…”

Ecco, quali sono quindi gli obiettivi di ITsART, e soprattutto, a chi è rivolta? Forse alle famiglie, che sfruttando un biglietto unico possono passeggiare virtualmente per le vie di Pompei, da un lato risparmiando e dall’altro evitando le mille incombenze di certe uscite con bambini appresso, in questo caso anche affascinati dall’esperienza virtuale. Possibile, ma la questione del pessimo tempismo di lancio torna in primo piano, ed è un problema che, fatta eccezione per gli anziani, si ripresenta con le stesse caratteristiche per qualsiasi target. Che sia allora un’operazione destinata a un pubblico di over 65, ammesso che possa definirsi anziano tout court, forse meno insofferente nei confronti delle restrizioni degli ultimi tempi? L’offerta del catalogo lo farebbe pensare, così come il sistema del pago-ciò-che-vedo al posto dell’abbonamento. Conoscendo i nostri polli, però, l’idea è che le difficoltà di accesso, selezione e consumo dei contenuti possano essere, per quella categoria di utenti, assai più forti della voglia di guardarsi sul tablet un concerto di Emma Marrone o un omaggio a Morricone, a seconda dei gusti.

Di certo c’è che il concetto di cultura trasmesso dalla piattaforma, qualsiasi cosa si intenda con quel termine, è un accrocco in cui alto e basso si mescolano in nome del Paleolitico, con tutti quegli “omaggi”, “maestri” e “autori” che giganteggiano in ogni didascalia di ciascuna delle tre sezioni. Perché, vista l’attuale, scarsissima offerta della piattaforma, non concentrarsi sulle decine di festival cinematografici minori e meritevoli di considerazione? Perché non dare spazio a chi, oltre a cantare le pene d’amore, cerca di avvicinare la nostra musica a degli standard internazionali lontani dalle baracconate dei contest europei e nazionali? Mantenere certi contenuti a pagamento e inserirne altri gratuiti su questa scia, come fanno già da anni altre piattaforme (ad esempio Mymovies per il cinema) non porterebbe forse un flusso immediato di utenti – presumibilmente già pochi – ma darebbe quantomeno un senso di promozione dell’arte italiana a una piattaforma che sembra nata vecchia. Non è allora un caso che il già evocato annuncio dell’Aprile 2020 sia stato fatto dal ministro Franceschini nella trasmissione di Gramellini su Rai3, terra capace di trasformare in libresco anche il gesto artistico d’avanguardia.

“Celebrare e raccontare il patrimonio culturale italiano in tutte le sue forme e offrirlo al pubblico di tutto il mondo”.

È quanto si leggeva fino a pochi giorni fa all’interno della piattaforma, prima che fosse attivata completamente: appurato che tutto il mondo, per quelli di ITsART, sia l’Italia e la Gran Bretagna (unico altro Paese in cui, al momento in cui scriviamo, la piattaforma risulta accessibile) le forme di cui si parla sono quelle erudite e istituzionali dell’autorità da rispettare più che della curiosità da scoperta o riscoperta di materiali artistici. L’impostazione del catalogo culturale su piccolo o grande schermo, stringi stringi, non è nient’altro che una versione digitale del vecchio teatro filmato della TV italiana delle origini, con tutta la patina didattica che si portava dietro.Il problema è che a quei tempi una smile impostazione educativa erafiglia di un’intelligente importazione di modelli esteri (in quel caso quello della BBC), mentre la replica dello stesso modello museale nel 2021 risulta piuttosto inadeguata per competere con altri servizi. Ecco, cultura immobile, approccio paternalistico e zero appeal intorno all’arte: vuoi vedere che il vero target di ITsART è la scuola italiana? Purtroppo, a nascere vecchi, anche un raffreddore è capace di farti secco. ITsART!…Salute.