La fragilità italiana sul debito.

 

Politica e silenzi
N on è vero che gli schieramenti della prossima campagna elettorale siano divisi su tutto. C’è qualcosa che, pur tra mille sfumature, li unisce: l’avversione al fiscal compact , ovvero a quell’insieme di regole sui bilanci pubblici approvate da 25 Paesi dell’Unione Europea il 2 marzo del 2012. Con la firma italiana. Nella sostanza il pareggio strutturale di bilancio e l’impegno a ridurre di un ventesimo l’anno la parte del debito pubblico eccedente il 60 per cento del Pil, il Prodotto interno lordo. Trascorsi cinque anni – secondo l’articolo 16 – le norme dovrebbero entrare nell’ordinamento giuridico comunitario a partire dal gennaio del 2018. La proposta di direttiva per il loro accoglimento è già stata presentata, il 6 dicembre, dal presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker. E, probabilmente, sarà elemento essenziale della riforma franco-tedesca dell’Unione di cui conosceremo i dettagli nel prossimo marzo, in concomitanza con il voto italiano. Noi forse in primavera non avremo un governo con una chiara maggioranza. Gli altri comunque vanno avanti. Non ci aspettano. Di questa fragilità italiana, in un negoziato europeo in cui la nostra voce sarà gioco forza flebile, non vi è chiara coscienza.
Enzo Moavero Milanesi, sul Corriere del 14 dicembre, ha avvisato che la direttiva Juncker rischia di essere più severa del fiscal compact che dovrebbe recepire.

I nfatti riduce i margini di cui ha beneficiato l’Italia negli ultimi anni, perché limita le deroghe alle circostanze eccezionali e alle sole riforme con un impatto positivo e diretto sui conti pubblici. Insomma, tanto per essere chiari, il Jobs act potrebbe non essere tra queste. Moavero si è stupito del silenzio con cui è stata accolta in Italia la direttiva Juncker. Un silenzio che non solo stupisce ma inquieta alla luce delle svariate prese di posizione contrarie al fiscal compact da parte degli sfidanti alle prossime elezioni. Il segretario del Pd Matteo Renzi pur di sopprimerlo non escluderebbe il ricorso al diritto di veto. Silvio Berlusconi si è spinto a dire che «dobbiamo minacciare di uscire dall’Europa senza farlo». Luigi Di Maio oscilla tra una proposta di referendum sull’euro, da indire per non tenerlo, e una vaga ipotesi di sterilizzare dal disavanzo gli investimenti pubblici. Tutti sono per fare più deficit, anche riducendo le tasse, e tentare così di avere maggiore crescita. Terapie sul debito non ve ne sono. Una rimozione ugualmente inquietante. Eppure molti di coloro che oggi demonizzano il fiscal compact (ma a maggiore ragione dovrebbero prendersela con la direttiva Juncker) non sono estranei alla sua approvazione, avvenuta nel consenso generale, Lega esclusa. Il governo Monti era sostenuto da una larghissima maggioranza. Le regole del cosiddetto six pack – con gli impegni chiave a ridurre, ogni anno, dello 0,5 per cento il deficit e di un ventesimo il debito pubblico – furono trattate dal governo Berlusconi. E per un po’ di tempo il centrodestra si è vantato di essere un antesignano del rigore. Oltre ad aver fatto valere l’importanza del risparmio privato italiano che compensa l’enorme debito pubblico. La direttiva Juncker sembra essere, su quest’ultimo punto, meno indulgente. Molti degli attuali strenui oppositori hanno poi convintamente appoggiato l’obbligo del pareggio di bilancio strutturale – parte integrante del fiscal compact – con la modifica costituzionale nella primavera del 2012. Si trascura poi di ricordare che senza l’intesa sulle regole del fiscal compact difficilmente Draghi e la Banca centrale europea sarebbero riusciti ad approvare una politica di acquisti dei nostri titoli pubblici. Il Quantitative easing ha fatto scendere i tassi d’interesse e consentito vasti risparmi, non finiti nella riduzione del debito. E non si può omettere di menzionare tutte le difficoltà politiche che avrebbe un nuovo governo – magari senza una chiara maggioranza – nel porre ipotetici veti. Ammesso che sia una strada politicamente percorribile, indebolirebbe la posizione italiana su altri insidiosi aspetti della riforma europea di cui si discute. In particolare su due punti. Primo: la richiesta di non considerare più privi di rischio i titoli di Stato detenuti dalle banche. Secondo: i margini d’intervento del futuro fondo monetario europeo condizionati alla ristrutturazione del debito dei Paesi in difficoltà.

In realtà, tornando al fiscal compact , il rischio è di arrivare – un po’ com’è accaduto con l’approvazione preterintenzionale del cosiddetto bail in sulle banche – a porsi politicamente il problema quando i giochi saranno fatti, i buoi scappati e l’Italia isolata. Ecco perché il dibattito elettorale sulla possibilità di ridiscutere o ribaltarlo appare surreale, se non ingannevole. Gli elettori hanno il diritto di sapere le cose come stanno, di conoscere i reali margini di manovra. Il nostro potere negoziale potrebbe essere rafforzato da una seria discussione sul rientro dal debito che per ora è clamorosamente mancata. Come ha ricordato Carlo Cottarelli, ex commissario alla spending review , oggi alla guida del neonato Osservatorio sui Conti Pubblici dell’Università Cattolica, non servono patrimoniali (dannose) o mega manovre. Ma semplicemente un impegno serio di riduzione costante del rapporto del debito con il Prodotto interno lordo. Cottarelli ha chiesto su La Stampa del 19 dicembre ( Tre quesiti sui conti dello Stato ) più chiarezza nei programmi dei partiti su spesa, deficit, debito. Curioso che finora abbia risposto solo il neonato movimento di Emma Bonino che non si sa nemmeno se riuscirà a raccogliere le firme per partecipare. Un po’ di buona volontà e più sincerità. Meno promesse al vento. Del resto, se anche non ci fosse l’Europa con il suo fiscal compact sarebbe saggio continuare a indebitarsi e a non controllare le spese? Una famiglia lo farebbe? No, e allora?

 

Corriere della Sera.

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