Il virus dei Barbari

Classici
Idee
Vitalissimi. Cruenti. Devastanti come una pestilenza. Così Tacito descriveva i popoli oltre il Reno. Una lettura che spiega ancora molto del nostro rapporto con lo straniero. Feticcio, oggetto di desiderio, la “Germania” è stata considerata da alcuni “importante quanto la scoperta dell’America”. Il Führer chiese a Mussolini il manoscritto originale.
Stefano Vastano
Rozzi. Barbari al massimo grado. E quella loro terra «informe, dal clima pessimo, squallida a viverci e senza nulla di bello». Così Publio Cornelio Tacito scrive delle genti stanziate al di là del Reno nel “De origine et situ Germanorum” e della loro “Germania”, come il suo libello è meglio noto. Un testo che lo storico e senatore romano scrive nel 98 d.C. E che, da Lutero sino alle furie ideologiche dei nazisti, influenzerà non solo l’immaginario dei tedeschi ma anche, in tempi di polemiche Ue sulla solidarietà tra Paesi, il modo in cui vediamo l’Europa del Nord. «Per molti aspetti questo di Tacito è un testo profetico e altamente attuale», esordisce Dino Baldi, scrittore, filologo e docente presso l’ateneo di Firenze, e curatore (per Quodlibet) di una bellissima edizione della “Germania”. Non solo: Baldi ha curato anche nuova edizione dell'”Anabasi” di Senofonte, testo cruciale della cultura greca, e specchio in cui guardare a noi stessi nel nostro riflesso sugli Altri. I cosiddetti “barbari”.
«Con la “Germania” di Tacito è l’idea di impero a entrare in crisi, il nostro rapporto non solo con i barbari, ma con la stessa civiltà», continua Baldi, che ci accompagna nel comprendere quale messaggio può venirci oggi dai classici greci e latini rispetto alla gestione degli effetti dell’ epidemia e le crisi politiche.
«Gli antichi avevano una doppia spiegazione delle pestilenze», nota Baldi. «Contemplavano sia la collera divina che quella umana. Nelle “Questioni naturali”, ad esempio, Seneca parla dei miasmi dalle profondità della terra che si depositano nelle acque, nell’aria e poi infettano le città. Teniamo presente che, da Omero, la peste è un luogo comune letterario. Anche Tacito racconta la pestilenza che si ebbe nel 66 d.C., sotto Nerone. La peste antonina fu la tempesta perfetta, in un momento nel quale l’impero romano fronteggiava due guerre pesantissime, in Oriente e in Occidente».
Per Tacito, però, la crisi più grave non viene dalla peste, ma dalla “Germania”, da quei barbari dai costumi così cruenti, come descrive nel suo libello. «Secondo Svetonio, la peste del 66 provocò 30 mila morti nella capitale, ma per Tacito il vero pericolo non è quello biologico», sottolinea Baldi, «ma il fatto politico-morale che Roma non è più una repubblica, e i romani sono deboli rispetto alla vitalità dei barbari. Un “virus”: i Germani avevano un altissimo tasso di natalità ed erano pronti, come in uno tsunami barbarico, a scavalcare ogni limes».
All’inizio dello scontro con questi vitalissimi barbari c’è il trauma di un Impero che, nel 9 d.C., nelle selve di Teutoburgo, si vede annientare tre legioni dai germani di Arminio. Per Roma è una catastrofe. Ma per generazioni di tedeschi una leggenda.
«Tacito», continua Baldi, «non cita mai Teutoburgo nella sua “Germania” ma smentisce la propaganda di Augusto, il principe che ha subìto quella sconfitta facendo finta che il problema dei germani ribelli fosse risolto e l’impero si estendesse sino all’Elba. Il libro di Tacito è una colossale dimostrazione del fatto che i Germani non erano affatto domati, ma pericolosissimi». È il sogno cesariano di conquista del mondo, di arrivare cioè al Mar Caspio, che i Germani spezzano per sempre. Ed è l’ambizione universale romana che Tacito smonta una volta per tutte con la “Germania”.
«Traiano è governatore della Germania superiore quando è eletto imperatore», precisa Baldi. «Dopo la nomina resta per mesi con il grosso delle truppe a Colonia, creando ansia a Roma. Come leggiamo da epigrammi di Marziale che invoca il Tevere di restituire “Traiano al suo popolo e alla sua città”. Per questo la “Germania” è un instant book».
In effetti, le descrizioni che Tacito fa dei popoli oltre il Reno sono duri moniti politico-morali a uso e consumo dei romani. «L’etnografia di Tacitoè “domestica”: in ogni sua riga è forte la volontà di descrivere i Germani per parlare ai Romani. Ma anche oggi la figura e la vita del “barbaro” ci toccano molto da vicino, per capire chi siamo noi e la nostra civiltà rispetto a colui che definiamo in questo modo».
Per Tacito non ci sono dubbi: i barbari incarnano il binomio di Virtus e Libertas. Quel motore cioè che spinse Roma nell’epoca aurea della Repubblica. «La sua “Germania” è spiazzante», riassume Baldi, «perchè vede quel popolo sia come barbari, al di sotto della civiltà romana, che come modello vincente di una Libertas non addomesticata, che in fondo a lui ricorda l’origine della virtus romana. Per Tacito, che in questo è profetico, l’impero non è il non plus ultra della civiltà, ma l’inizio della decadenza. Il suo modello è la libertà repubblicana precedente alle guerre civili. Sono gli stoici i primi a inaugurare la visione del “barbaro” come origine e specchio di una civiltà che si sta indebolendo in una corruzione, appunto, barbarica». Tacito insomma invita i Romani a riflettersi nell’Altro, soprattutto per capire cosa ormai non sono più. Cosa hanno perso per strada, trasformando Roma in un Impero. Alla fine dunque i veri barbari siamo noi?
«Leggere la “Germania” serve a questo esercizio stoico-epicureo, ad alimentare la capacità di guardarsi dall’esterno, per rimettere in gerarchia ciò che ti capita, sia un dolore individuale che il tuo rapporto con lo straniero. Tacito sente la necessità di vedersi da fuori rompendo il tipico sguardo autoreferenziale del potere. E ritengo che questo esercizio possa tornarci utile anche oggi». Angosciati come siamo dalla doppia emergenza delle pestilenze e delle migrazioni globali.
L’autore della “Germania” fu il primo acuto testimone dell’eterno rapporto di seduzione e rifiuto fra Roma e i Germani. Delle due “velocità”, se vogliamo, nel seno d’Europa. Quel conflitto a cui Benedetto Croce, nel 1944, dedicò il saggio “Il dissidio spirituale della Germania con l’Europa”. Dall’altra parte del limes invece, da Lutero ai fratelli Grimm ai grandi filologi come Wilamowitz, il testo di Tacito fu «importante quanto la scoperta dell’America», come disse Alexander von Humboldt. Non è un caso se, alle Olimpiadi del 1936 a Berlino, Hitler in persona chiese a Mussolini il manoscritto originale.
«I tedeschi hanno visto in Tacito l’occasione per avere, fuori dall’orbita greco-latina, la loro storia originale. Mussolini, senza neanche sapere di cosa Hitler parlasse, all’inizio rispose sì alla richiesta. Ma nel 1938, durante la visita del Führer a Roma, Giuseppe Bottai (allora ministro dell’Educazione popolare, N.d.R.) riuscì a smarcarsi dalla richiesta tedesca. Dopo l’arresto del Duce del 25 luglio 1943, Himmler mandò un distaccamento delle SS per recuperare il manoscritto tacitiano nella villa del conte Balleani nei pressi di Jesi. Persino nei momenti più tragici della storia, la “Germania” rimase un feticcio quasi mistico. «E ciò grazie al capitolo in cui Tacito afferma che i Germani sono una “razza pura”, incontaminata da altri popoli. Non a caso Arnaldo Momigliano, nel 1966, definì la “Germania” «uno dei 100 libri più pericolosi al mondo». Uno di quei Classici come “eterni virus” capaci di contaminare anche secoli dopo la loro stesura. Per questo un altro filologo di formazione, Friedrich Nietzsche, definì quello del filologo «un lento lavoro da orafi».
«L’acribia dell’orafo di cui parla Nietzsche è un’arte che ti insegna a vedere i testi e il mondo come qualcosa di problematico», dice Baldi. «I messaggi che ci tempestano sui social sono non solo frammentari, ma immersi nella convinzione della verità. La filologia, al contrario, è la disciplina del dubbio». In fondo, è il messaggio che trasmette anche l'”Anabasi”, l’altro testo curato da Baldi.
«Anche quello di Senofonte è un testo che descrive cambiamenti epocali, di un autore che si rende conto – come Tacito – della crisi alle porte. Non è chiaro se l'”Anabasi” sia bollettino di guerra, diario di viaggio o trattato filosofico. È il momento cruciale in cui la Grecia esce dalla Grecia: una civiltà di soldati guidati da Senofonte oltre i confini, una polis itinerante che in viaggio scopre un’altra e più attiva etica socratica».
Siamo talmente abituati a pensare ai Greci attraverso i testi di Platone che ci spiazza nell'”Anabasi” il comportamento così pratico e sagace dei greci. «La maieutica di Senofonte suscita nei soldati non ragionamenti, ma atteggiamenti pratici e disciplina. L’ “Anabasi” è il successo politico più grande di Socrate, visti i clamorosi insuccessi politici di Platone. Senofonte riporta 10mila soldati in Grecia, insegnandogli ad essere, anche fra barbari e nelle situazioni peggiori, dei veri Greci».
espresso.repubblica.it