Caproni, ascensore per il paradiso (con la madre)

Autunno del 387 d.C. Dopo la conversione e dopo il battesimo ricevuto a Milano da Ambrogio, Agostino decide di rientrare in Africa con la madre Monica e il suo gruppo di amici. Giunti a Ostia, decidono di sostarvi qualche giorno per riposarsi in attesa dell’imbarco. Monica e Agostino si ritrovano soli, presso una finestra affacciata su un giardino e, mentre dolcemente conversano sul paradiso, hanno una visione che li porta per un attimo al cospetto di Dio. Si tratta di uno dei vertici delle Confessiones, la cosiddetta «estasi di Ostia», conclusa da una commovente apostrofe che funge da estremo congedo: «Figlio mio, quanto a me, non c’è più in questa vita nient’altro che possa farmi piacere. (…) Cosa ci faccio qui?» (Conf. IX 10, 23-26). Segue il racconto dell’improvvisa malattia e morte di Monica.
Molti secoli dopo, quelle pagine di grande profondità spirituale troveranno un’eco in alcuni dei versi più intensi di Giorgio Caproni. Tornato a Genova da Roma per una visita alla madre, Anna Picchi, che, gravemente malata, sarebbe morta nel febbraio 1950, il poeta compone la lirica L’ascensore, mezzo con il quale immagina di salire un giorno in paradiso e incontrarvi la madre, che compare così per la prima volta nella sua poesia (vv. 25-41): «Con lei mi metterò a guardare / le candide luci sul mare. / Staremo alla ringhiera / di ferro – saremo soli / e fidanzati, come / mai in tanti anni siam stati. / E quando le si farà a puntini, / al brivido della ringhiera, / la pelle lungo le braccia, / allora con la sua diaccia / spalla se n’andrà lontana: / la voce le si farà di cera / nel buio che la assottiglia, / dicendo «Giorgio, oh mio Giorgio / caro: tu hai una famiglia». // E io dovrò ridiscendere, / forse tornare a Roma…».
Oltre alla convergenza biografica della morte delle madri, colpiscono una serie di altre circostanze in comune fra i due testi. La stessa ambientazione in prossimità del mare. L’affettuosa intimità fra la madre e il figlio, che in entrambi gli episodi si ritrovano soli: un tratto a cui Caproni aggiunge la sua caratteristica proiezione fantastica «e fidanzati». E ancora l’apostrofe finale, che, nel caso di Caproni, fa sì che il poeta introduca per la prima volta nei suoi versi il proprio nome. Ma colpisce soprattutto l’idea di un’ascesa: in pendant con l’ascendebamus interius, grazie al quale Monica e il figlio raggiungono per un attimo la sede dei beati, vi è l’«ascensore / di Castelletto» (vv. 7-8) che per Caproni porta in paradiso. Un ascensore pubblico che ancora oggi, a Genova, conduce al belvedere di Castelletto, ma che all’epoca era circondato da pareti di vetro e doveva dare l’idea di una vera e propria ascesa. È stato infine notato che una delle più singolari peculiarità dell’estasi di Agostino è il suo configurarsi eccezionalmente come un’ascesa ‘a due’, situazione che realizza un ulteriore parallelo con la coppia ‘celeste’ Giorgio-Annina.
L’ascensore è in realtà solo uno tra gli esempi più suggestivi della presenza di Agostino e, più in generale, dei classici in Caproni. Nonostante la sua formazione non classicistica – il poeta aveva il diploma magistrale –, si tratta di una presenza più profonda e sistematica di quanto non possa sembrare a prima vista, che spazia fra ricordi di Plauto, Lucrezio, Catullo, Cesare, Orazio, Fedro, Minucio Felice, e occasionali riferimenti perfino ad autori greci. La scoperta di stoici ed epicurei rimane per lui di fondamentale importanza: «in fondo io mi sento uno stoico», dichiara in un’intervista del 1988. Ma è su Virgilio che si concentrano le sue preferenze, come dimostrano Il passaggio d’Enea e il suo ritornare, quasi ossessivamente, nell’arco di quarant’anni, sul mito dell’eroe virgiliano, dopo averne incontrato, all’indomani della Seconda guerra mondiale, in una piazza di Genova fra le più bombardate d’Italia, una piccola statua con Anchise in spalla e Ascanio accanto.
Come di Virgilio, così di Agostino Caproni non smette mai la frequentazione. È noto che tiene sul comodino un’edizione delle Confessiones, nella traduzione di Onorato Tescari: un libro di piccole dimensioni e tutto annotato.
Le Confessioni devono aver giocato un ruolo non secondario nella sua insistita riflessione sul problema del male – che, secondo Caproni, nemmeno Agostino aveva potuto risolvere. E la battaglia teologica fra Agostino e Pelagio su predestinazione e ‘amissibilità’ o meno della Grazia a causa del peccato domina l’ultima stagione della sua poesia, che metterà capo alla raccolta postuma Res amissa. Il titolo della silloge e della poesia eponima trova peraltro riscontro in due iuncturaeamissae rei e rebus amissis – che affiorano in due celebri episodi delle Confessiones, rispettivamente la morte dell’amico (IV 5, 10) e il furto delle pere (II 6, 13).
Ma a uno sguardo più attento è la sua intera produzione a essere segnata dalla profondità del capolavoro agostiniano.
A partire da Il muro della terra ricorre per esempio con una certa frequenza il motivo del vento combinato con una riflessione sul tempo, in contiguità con le speculazioni di Agostino. Valga per tutti il caso della lirica Dopo la notizia – il cui titolo si riferisce all’annuncio dello scoppio della guerra nel 1939, riportato su un foglio di giornale che il vento fa svolazzare sull’asfalto: «Quel vento,/ là dove agostinianamente/ più non cade tempo». È con grande sapienza che Caproni sceglie la parola «agostinianamente», a sottolineare, con il suo notevole peso sillabico, il rilievo del concetto che esprime. Lui stesso ne esplicita il riferimento, annotando, accanto ai versi finali, sull’unico dattiloscritto di questa poesia segnalato dall’edizione critica di Luca Zuliani, «Confessioni 585». Il rimando è alla pagina 585 della sopra ricordata traduzione di Tescari, al passo in cui Dio afferma che, mentre la sua Scrittura parla nel tempo, il suo Verbo è al di fuori del tempo, come lui stesso (Conf. XIII 29, 44).
Perfino nella produzione meno nota di Caproni, quella delle prose narrative, avviene di registrare la rilevante presenza di Agostino. A partire dalla redazione pubblicata nel 1952, in epigrafe al racconto Il gelo della mattina compare la citazione di Confessiones VI 6, 9: «Vedi il mio cuore, o Signore, che hai voluto che di questo particolare io mi ricordassi e confessassi davanti a te!». Se ne coglie facilmente il profondo valore, con un alone di sensi di colpa, poiché si tratta del racconto – nato come ultimo capitolo di un romanzo, La dimissione, mai portato a compimento – in cui, dietro il velo di personaggi di finzione, sono ripercorse e narrate le ultime ore di Olga Franzoni, la fidanzata genovese di Caproni, morta di setticemia nel 1936, a soli 24 anni, poco prima delle progettate nozze. Una circostanza di fronte alla quale Giorgio si è sempre sentito inadeguato e impotente. E siamo fortuitamente a conoscenza di un dettaglio tanto significativo quanto toccante: il 26 ottobre 1948, giorno in cui – dopo anni da quel luttuoso evento – avvia la prima stesura del racconto, l’autore annota nel suo diario di aver concluso la propria giornata dedicandosi alla lettura di Agostino. Un modo forse per tentare di sciogliere, «agostinianamente», quel nodo così delicato, ed esistenzialmente cruciale, del suo passato.

 

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