Contro i raduni alternativi dell’epoca – organizzati dalla sinistra extraparlamentare e dai movimenti pacifisti – la destra era solita pronunciare veri anatemi: sono anti-italiani, sono una vergogna, andrebbero arrestati.
Ieri, tra piazza del Popolo e largo dei Lombardi, il sovranismo a trazione salviniana ha rovesciato lo schema. Non solo ha seppellito il tradizionale rispetto delle destre per la data, ma con un corteo inaspettato e senza regole ha fatto del suo 2 giugno un momento di divisione e scontro. Il lungo tricolore srotolato su via del Corso per evocare un tributo all’unità nazionale non ha potuto nascondere il nocciolo emotivo dell’adunata, e cioè il “vaffa” (ripetuto più volte in coro dai dimostranti) di un pezzo d’Italia all’altro pezzo, quello che esprime responsabilità governative. Insieme a esso è emerso un implicito “vaffa” alle norme sanitarie, alle mascherine, al divieto di oltrepassare i confini regionali, di assembrarsi, di respirarsi in faccia scattando selfie collettivi: un “vaffa” a tutto ciò che è percepito come regola dettata dall’alto.
Insomma, non è rimasta all’angolo solo la vecchia destra che il 2 giugno metteva la cravatta per portare i bambini a vedere le Frecce Tricolori sull’Altare della Patria, ma anche quella “legge e ordine” che indicava la disciplina come valore pubblico e soluzione a ogni problema del Paese. E si capisce il visibile straniamento di Giorgia Meloni, che all’improvviso, in un appuntamento che forse immaginava diverso, si è trovata travolta dal codice dettato da Matteo Salvini, redivivo mattatore della giornata, pienamente a suo agio nell’affollato corteo che ha sostituito l’evento simbolico inizialmente previsto.
Al Capitano, ovviamente, importa poco o nulla della Festa della Repubblica e del suo significato. Viene da un partito che per anni l’ha silenziosamente evitata e per lui non è stato certo un problema strapazzare il 2 giugno, farne cosa sua, approfittarne per mettersi alla testa dell’arcipelago protestatario che emerge dall’emergenza Covid. Più oltre, il leader del Carroccio ha usato l’opportunità per dimostrare a tutti chi comanda nel centrodestra. Da mesi raccontiamo il suo declino nei sondaggi, l’ascesa della Meloni, gli smarcamenti di Silvio Berlusconi, l’emergere di un fronte moderato incarnato da Luca Zaia: tutte balle, ci ha detto ieri Salvini. Mia è l’egemonia, mio il nome che le folle scandiscono, mia la faccia che gli elettori vogliono immortalare nei loro cellulari. Mio, soprattutto, è il controllo del vaso di Pandora della protesta: posso aprirlo quando voglio, anche nel giorno solenne dell’unità repubblicana.
Questo inaspettato 2 giugno di protesta pone tuttavia un problema ben più ampio degli equilibri interni del centrodestra o del rapporto tra opposizione e governo. Avevamo una festa civile che simboleggiava il nostro stare insieme “da italiani” prima che da elettori di destra, sinistra, centro. Una festa che era riuscita a esercitare il suo ruolo unificante attraverso ogni temperie, associando persino gli antichi esclusi dall’Arco costituzionale. Questo fatidico 2020 rischia di cancellare anche quella, di trasformare anche quella in un’altra cosa.
IL “VAFFA” TRICOLORE DI SALVINI
La manifestazione romana del 2 giugno segna uno strappo politico tra vecchie e nuove destre più profondo di quel che si prevedeva. La Festa della Repubblica è stata, per oltre mezzo secolo, l’unica celebrazione civile pienamente riconosciuta dalla destra, la sola che vedesse i suoi uomini seduti in tribuna d’onore a fianco dei massimi esponenti dei partiti avversari, delle istituzioni e del governo, in un silenzioso e solenne atto di condivisione dei valori incardinati dal referendum del ’46.