IL “VAFFA” TRICOLORE DI SALVINI

La manifestazione romana del 2 giugno segna uno strappo politico tra vecchie e nuove destre più profondo di quel che si prevedeva. La Festa della Repubblica è stata, per oltre mezzo secolo, l’unica celebrazione civile pienamente riconosciuta dalla destra, la sola che vedesse i suoi uomini seduti in tribuna d’onore a fianco dei massimi esponenti dei partiti avversari, delle istituzioni e del governo, in un silenzioso e solenne atto di condivisione dei valori incardinati dal referendum del ’46.

Contro i raduni alternativi dell’epoca – organizzati dalla sinistra extraparlamentare e dai movimenti pacifisti – la destra era solita pronunciare veri anatemi: sono anti-italiani, sono una vergogna, andrebbero arrestati.
Ieri, tra piazza del Popolo e largo dei Lombardi, il sovranismo a trazione salviniana ha rovesciato lo schema. Non solo ha seppellito il tradizionale rispetto delle destre per la data, ma con un corteo inaspettato e senza regole ha fatto del suo 2 giugno un momento di divisione e scontro. Il lungo tricolore srotolato su via del Corso per evocare un tributo all’unità nazionale non ha potuto nascondere il nocciolo emotivo dell’adunata, e cioè il “vaffa” (ripetuto più volte in coro dai dimostranti) di un pezzo d’Italia all’altro pezzo, quello che esprime responsabilità governative. Insieme a esso è emerso un implicito “vaffa” alle norme sanitarie, alle mascherine, al divieto di oltrepassare i confini regionali, di assembrarsi, di respirarsi in faccia scattando selfie collettivi: un “vaffa” a tutto ciò che è percepito come regola dettata dall’alto.
Insomma, non è rimasta all’angolo solo la vecchia destra che il 2 giugno metteva la cravatta per portare i bambini a vedere le Frecce Tricolori sull’Altare della Patria, ma anche quella “legge e ordine” che indicava la disciplina come valore pubblico e soluzione a ogni problema del Paese. E si capisce il visibile straniamento di Giorgia Meloni, che all’improvviso, in un appuntamento che forse immaginava diverso, si è trovata travolta dal codice dettato da Matteo Salvini, redivivo mattatore della giornata, pienamente a suo agio nell’affollato corteo che ha sostituito l’evento simbolico inizialmente previsto.
Al Capitano, ovviamente, importa poco o nulla della Festa della Repubblica e del suo significato. Viene da un partito che per anni l’ha silenziosamente evitata e per lui non è stato certo un problema strapazzare il 2 giugno, farne cosa sua, approfittarne per mettersi alla testa dell’arcipelago protestatario che emerge dall’emergenza Covid. Più oltre, il leader del Carroccio ha usato l’opportunità per dimostrare a tutti chi comanda nel centrodestra. Da mesi raccontiamo il suo declino nei sondaggi, l’ascesa della Meloni, gli smarcamenti di Silvio Berlusconi, l’emergere di un fronte moderato incarnato da Luca Zaia: tutte balle, ci ha detto ieri Salvini. Mia è l’egemonia, mio il nome che le folle scandiscono, mia la faccia che gli elettori vogliono immortalare nei loro cellulari. Mio, soprattutto, è il controllo del vaso di Pandora della protesta: posso aprirlo quando voglio, anche nel giorno solenne dell’unità repubblicana.
Questo inaspettato 2 giugno di protesta pone tuttavia un problema ben più ampio degli equilibri interni del centrodestra o del rapporto tra opposizione e governo. Avevamo una festa civile che simboleggiava il nostro stare insieme “da italiani” prima che da elettori di destra, sinistra, centro. Una festa che era riuscita a esercitare il suo ruolo unificante attraverso ogni temperie, associando persino gli antichi esclusi dall’Arco costituzionale. Questo fatidico 2020 rischia di cancellare anche quella, di trasformare anche quella in un’altra cosa.

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