Il mio canto per Tabucchi

Reportage lisbonese «Storie che accadono», viaggio sentimentale sul tram numero 28, oggi in libreria dall’editore People

 

di Cristina Taglietti

Roberto Ferrucci dedica un memoir all’autore morto dieci anni fa. Ed è un inno all’amicizia: con il maestro e con Daniele Del Giudice

Un’immagine in controluce, i volti in ombra, le braccia appoggiate su un piano, forse un davanzale: sono Antonio Tabucchi e Daniele Del Giudice. Roberto Ferrucci, scrittore veneziano con un piede a Parigi, quell’immagine l’ha messa in chiusura del suo nuovo libro, Storie che accadono, uscito nel 2017 in Francia (Éditions La Contre-Allée) e oggi in libreria per l’editore People. Un ricordo di Antonio Tabucchi di cui, il 25 marzo, ricorrono i dieci anni dalla morte. Tabucchi e Del Giudice sono i due scrittori a cui Ferrucci è legato da sempre, fin da quando li ha voluti riunire nella sua tesi di laurea, nel 1990. «Credo esista soltanto una foto di loro due assieme. Dev’essere stata scattata più o meno nello stesso periodo del mio primo incontro con Tabucchi» scrive Ferrucci che molti anni fa l’ha ricevuta dalla Zé, cioè Maria José de Lancastre, la moglie dell’autore di Sostiene Pereira. Forse è stata proprio lei a scattarla, perfettamente inquadrata, con «un difetto che è la sua forza» perché, come scriveva Del Giudice, le parole fanno luce, ma allo scrittore è il cono d’ombra che ne nasce a interessare di più. Era stato l’autore dello Stadio di Wimbledon a presentare Tabucchi a Ferrucci, in un bar delle Zattere, a Venezia, un pomeriggio di un giorno imprecisato dell’agosto 1989, segnato da prese in giro e scherzi. Senza quell’incontro, scrive l’autore, oggi «sarei circondato sì dai loro libri ma senza le loro risate, i loro rimproveri, la loro genialità».

Questo reportage, mémoir, o récit, come lo chiamano i francesi, comincia sul tram numero 28 di Lisbona che conduce l’autore e la sua compagna al cimitero dove, ricoperta da un panno color crema a fiori arancioni, si trova l’urna che custodisce le ceneri di Antonio Tabucchi. È stato lui a scrivere, in L’angelo nero, la frase che racchiude il titolo di questo libro e ne anticipa il senso: «Le storie non iniziano né finiscono, ma accadono». «Ho sempre atteso, per tutta la mia vita, che lo scrivere e il raccontare storie avessero una trasparenza anche per me» sembra rispondergli Del Giudice, nella citazione di Atlante occidentale che Ferrucci pone in esergo del libro.

In quel tram che attraversa il cuore di Lisbona, in quella luce che è stata l’incipit del romanzo più noto di Tabucchi («Sostiene Pereira di averlo conosciuto in un giorno d’estate. Una magnifica giornata d’estate, soleggiata e ventilata, e Lisbona sfavillava») si accalcano ricordi, parole, pagine. Anche lì, davanti a quell’urna, c’è la tentazione, subito respinta, di scattare una foto: «Sarebbe stata una foto senza bisogno di didascalia, un’immagine intima», il tentativo di «catturare non solo luci e colori, ma anche il preciso sentimento che stavo provando».

Le ceneri sono al Cemitério dos Prazeres, a Lisbona, nel Paese di adozione di Tabucchi, ma il suo archivio e i suoi manoscritti sono alla Bibliothèque nationale de France, a Parigi, la città che amava e dove un giorno, ancora studente, da un bouquiniste sul Quai de la Seine, aveva incontrato Pessoa; in Italia c’è la sua casa di Vecchiano, in provincia di Pisa, mentre negli ultimi anni andava spesso a scrivere a Creta, dove gli avevano dato la cittadinanza onoraria per via di un suo articolo contro l’abbattimento degli ulivi imposto dall’Europa. I suoi lettori, però, ricorda Ferrucci, stanno ovunque, in giro per il mondo e la sua attitudine — stare in tante città d’Europa, viverle — è uno dei suoi lasciti, una testimonianza che rende consapevoli del fatto che «posare i piedi sul medesimo suolo per tutta la vita può provocare un pericoloso equivoco, farci credere che quella terra ci appartenga, come se essa non fosse in prestito, come tutto è in prestito nella vita». Essere amico di Tabucchi, parlare con lui, per Ferrucci è ricordare la generosità di un maestro, che, pur senza volerlo, aveva sempre qualcosa da insegnare: era ogni volta come «assistere a una master class» qualunque fosse l’argomento: politica, scrittura, letteratura, cinema o altro.

Lo stile intimo, confidenziale, del racconto accarezza le opere dello scrittore di Vecchiano: Sostiene Pereira, il bestseller uscito da Feltrinelli nel 1994 che lo fa conoscere al grande pubblico (anche grazie al film con Marcello Mastroianni che l’anno successivo ne trae Roberto Faenza); Notturno indiano nelle sue varie edizioni Sellerio («C’è quella del 1989, che ogni volta che la prendo fra le mani è come se toccassi il vecchio divano di velluto dei miei»); il primo romanzo, Piazza d’Italia, i saggi di Di tutto resta un poco che è la summa della sua biblioteca ideale.

«Provo a fare come Pereira, a guardare fuori come fa lui nel libro e come immagino abbia fatto Tabucchi chissà quante volte, a bordo del 28, perché ci sono mille modi di guardare, e non ho mai capito se te la porti dentro da sempre o se devi impararla poco a poco, negli anni, la grammatica dello sguardo, il congiuntivo del descrivere, il condizionale dell’osservare» scrive Ferrucci: i ricordi, le immagini, anche le allucinazioni, i gesti, i sorrisi, gli abbracci e le pacche sulle spalle, i baffi («Non me lo sono mai chiesto, ma oggi mi piacerebbe sapere quando se li è tagliati») riaffiorano a caso. Così su quel tram torna alla mente la frase di Tabucchi «la letteratura è anche ficcare il naso dove cominciano gli omissis», come quello che riguarda il volo Itavia 870, che il 27 giugno 1980 è esploso in volo sul cielo di Ustica e di cui ha parlato «il nostro amico» Daniele Del Giudice in Staccando l’ombra da terra. «Come sta Daniele, mi chiedeva sempre quando ci vedevamo, gli ultimi anni, ma lo faceva anche al telefono, o per email» ricorda Ferrucci e quando il tram numero 28 arriva al capolinea, dopo aver attraversato tutta Lisbona, si fa più chiaro ciò che Tabucchi scriveva, e cioè che «un luogo non è mai solo “quel” luogo: quel luogo siamo un po’ anche noi». Prima di scendere c’è il tempo soltanto per ricordare l’ultima email ricevuta: la salute va così così, vienimi a trovare a Lisbona.

 

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