Il dolore e le sfide.

 

La staffetta al vertice della Fca era stata messa in calendario per la primavera del 2019 e i mesi che sarebbero passati prima di quella scadenza avrebbero dovuto servire a sciogliere il dubbio sulla scelta di uno o l’altro dei manager della prima fila. La grave malattia che si è abbattuta con velocità impressionante su Sergio Marchionne ha invece conferito una valenza drammatica a quella che doveva essere una semplice alternativa di uomini e di business. La preoccupazione per la vita stessa di uno dei manager più stimati del mondo si mescola ora con i legittimi interrogativi sul futuro del settimo gruppo automobilistico del globo, che – non possiamo certo dimenticarlo – ha incarnato nella storia del nostro Paese l’idea stessa di industria moderna. Oggi l’ex Fiat non ha più il peso che deteneva nel Novecento ma le vendite di Panda e Punto hanno comunque trainato la ripresa tra il 2015 e il 2017 e il gruppo resta un presidio di cultura manifatturiera di rango internazionale. Messo davanti all’emergenza il consiglio della Fca ha scelto come successore Mike Manley, un manager inglese che proviene dalle file del gruppo e che ha dato in questi anni ampie prove di affidabilità ma che già solo con il suo passaporto segna comunque un ulteriore elemento di discontinuità nei rapporti tra la casa automobilistica e l’Italia.
A Manley spetta un compito tutt’altro che facile. L’era Marchionne si chiude, infatti, dopo 14 anni con l’ottenimento di decisivi successi sul piano della sopravvivenza autonoma del gruppo ma anche con la consapevolezza che sul cammino della Fca pesano, come per altre case del settore, gravi incognite.

Due lustri fa c’era chi pensava di risanare la Fiat affidandola alla Finpiemonte, c’era chi sosteneva per Torino un imprecisato «modello Telecom» ma fortunatamente l’accorta guida di Marchionne ha saputo inventare un percorso che altri forse non avevano nemmeno visto e che ha portato il gruppo a salvarsi, ad annettersi di fatto la Chrysler con la collaborazione di Barack Obama e a poter annunciare poche settimane fa di aver azzerato il maxi-debito contratto a suo tempo con le banche. In mezzo il manager famoso (anche) per aver sdoganato l’uso del maglione negli appuntamenti top ha dovuto e saputo fare scelte drastiche: la rottura con la Confindustria e la creazione di un sistema di relazioni sindacali parallelo così come il riposizionamento del gruppo da azienda concentrata nelle auto del ceto medio a fornitore di vetture premium a più alto valore aggiunto. Marchionne, dunque, in questi anni ha corso molto, a tratti ha interpretato il ruolo più da imprenditore che da manager ma non ha potuto impedire che nel frattempo la storia dell’industria automobilistica mondiale cambiasse marcia.

Quello che gli esperti della politica industriale consideravano fino a qualche anno fa un settore maturo si è messo a volare. Per avere successo come costruttore di auto oggi bisogna possedere l’efficienza del 4.0, avere politiche di marketing capaci di dialogare con un consumatore infedele, coltivare relazioni industriali orientate alla coesione, aprirsi all’innovazione. E la sfida dell’elettrificazione delle vetture e dell’autonomous driving sono diventati punti prioritari dell’agenda di tutti i Ceo. Per tenere il campo e non rischiare di diventare marginali si rende necessaria, dunque, una mole di investimenti che va ben al di là delle risorse che la sola Fca può mettere in campo e che pure Marchionne aveva annunciato.

Da qui è facile presumere che la ricerca di un alleato sarà centrale nei piani di Manley e dovrà trattarsi di un’operazione destinata a bilanciare le necessità di consolidamento del settore con la capacità di cavalcare l’innovazione. C’è infatti chi sostiene che dovrebbero essere già all’ordine del giorno alleanze non limitate ai costruttori tradizionali bensì aperte ai colossi dell’high-tech. Vedremo, di sicuro Marchionne lascia un gruppo che ha l’appeal necessario per partecipare a questa sfida, sarà decisivo però non sbagliare né i tempi né le singole mosse. La dialettica tra avanzamenti tecnologici e presidio dei mercati non ammette ritardi e nemmeno fughe in avanti. Infine per quello che pesa Fca sul Pil e sull’occupazione italiana (88 mila addetti)saremo chiamati ad osservare con attenzione, e forse trepidazione, come il riposizionamento produttivo e la marcia verso la vettura elettrica si rifletteranno sul futuro dei sei stabilimenti italiani del gruppo. A Manley e al gruppo dirigente che lo affiancherà chiediamo, per ora, la passione e il rigore di Sergio Marchionne.

 

Corriere della Sera. https://www.corriere.it/