Continua a Bonn la lotta al cambiamento climatico.

Consolidare il cammino intrapreso con l’accordo di Parigi sul clima siglato nel dicembre del 2015, proseguire il lavoro della conferenza di Marrakech del 2016 e preparare il terreno per il futuro vertice di Katowice del 2018. È sostanzialmente questo il senso della Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (COP23), in corso di svolgimento dal 6 novembre nella città tedesca di Bonn con la partecipazione non soltanto dei rappresentanti politici e diplomatici di oltre 190 Stati, ma anche di esponenti del mondo dell’industria, dell’ambientalismo e della società civile.

A presiedere i lavori, con il loro primo ministro Frank Bainimarama, sono le isole Figi, che per questioni logistiche non hanno potuto ospitare l’evento. Mai come questa volta, la presidenza assume un valore altamente simbolico: assieme agli altri piccoli Stati insulari che condividono il pericolo dell’innalzamento dei livelli delle acque, Figi attende infatti con ansia una risposta forte a livello globale nel contrasto al cambiamento climatico, consapevole che dalla rapidità di azione e dall’efficacia delle strategie messe a punto dipenderà probabilmente in futuro la sua stessa esistenza.

Le evidenze scientifiche continuano a far intendere che il tempo a disposizione per intervenire va progressivamente diminuendo: nella giornata di apertura della Conferenza, l’Organizzazione meteorologica mondiale ha infatti reso noto che la temperatura media globale tra gennaio e settembre 2017 è stata di 1,1 oC superiore rispetto ai livelli dell’epoca preindustriale, un valore che appare vicino alla soglia critica fissata a Parigi dell’aumento massimo di 2 oC entro la fine del secolo, con l’obiettivo – se possibile – di fermarsi a +1,5 oC. Il 2017 dovrebbe dunque essere un anno record per le temperature, per quanto sembra non sia destinato a superare il 2016.

Gli altri indicatori di lungo periodo sull’incidenza del cambiamento climatico sull’ambiente, dai livelli delle acque all’acidificazione degli oceani, alla concentrazione di anidride carbonica fino allo spessore dei ghiacci del Mar Glaciale Artico, non trasmettono segnali incoraggianti. Quanto poi alle emissioni, i ricercatori del Global Carbon Project stimano che esse dovrebbero crescere del 2% entro la fine dell’anno, nonostante alcune positive evoluzioni si siano registrate su questo fronte negli anni passati. Fattori quali il rallentamento della crescita economica cinese, la transizione statunitense al gas e un utilizzo più deciso delle fonti rinnovabili avevano infatti contribuito a mantenere le emissioni su livelli stabili tra il 2014 e il 2016, ma nel corso del 2017 si è verificata una controtendenza al rialzo, in particolar modo a causa del massiccio utilizzo del carbone da parte della Cina. Secondo le stime, Pechino dovrebbe far registrare – con un +3,5% – un importante picco di incremento delle emissioni entro la fine del 2017, mentre le emissioni indiane cresceranno del 2%; in calo invece quelle degli Stati Uniti (-0,4%) e dell’Unione Europea (-0,2%).

Una volta di più, il 2017 è stato un anno difficile: uragani e inondazioni, ondate di calore e prolungati periodi di siccità hanno infatti continuato a manifestarsi in tutta la loro drammatica violenza, colpendo spesso Paesi già in difficoltà e innescando reazioni a catena che in diversi casi hanno acuito crisi già in corso. Da una parte, gli eventi atmosferici catastrofici producono effetti immediatamente visibili: nel 2016, ad esempio, sono stati 23,5 milioni gli sfollati a causa dei disastri naturali. Dall’altra però, esiste una dinamica più articolata e non sempre immediatamente percettibile, che incide in maniera assai profonda sulla vita quotidiana degli individui: basti pensare – ha giustamente sottolineato l’Organizzazione meteorologica mondiale – alle ripercussioni che gli eventi atmosferici catastrofici hanno sulla sicurezza alimentare di milioni di persone, con interi raccolti distrutti o la perdurante siccità che impedisce di coltivare, o, ancora, all’impatto che i cambiamenti climatici possono avere sulla salute.

È dunque su questi problemi che il mondo è chiamato ad agire a Bonn, provando a dare concretamente forma agli impegni assunti con l’accordo di Parigi. Un’intesa che – va ricordato – si fonda su un approccio di tipo bottom-up, cioè ‘dal basso verso l’alto’, in contrapposizione all’impostazione top-down – ‘dall’alto verso il basso’ – del protocollo di Kyoto: non dunque decisioni imposte dal vertice, bensì impegni e contributi definiti a livello nazionale (Intended Nationally Determined Contributions, INDC) per riuscire a raggiungere l’obiettivo collettivo finale, nell’ottica di una ‘responsabilità comune ma differenziata’. Un concetto, quest’ultimo, che, traendo origine dalla Convenzione quadro sui cambiamenti climatici delle Nazioni Unite del 1992, si ricollega evidentemente agli equilibri di sviluppo dell’epoca, e per questo oggetto di discussione negli ultimi tempi: ribadirlo ha significato dunque confermare il principio del maggiore impegno richiesto agli Stati sviluppati.

In vista della conferenza di Katowice, a Bonn sarà dunque necessario che le parti riescano a porre le basi per un’intesa sull’implementazione di quanto concordato a Parigi, in particolare sulla trasparenza nella misurazione e comunicazione dei progressi compiuti a livello nazionale sul fronte del contrasto al cambiamento climatico. Intanto, dopo l’adesione del Nicaragua nel mese di ottobre, anche la Siria ha dichiarato di aderire all’accordo di Parigi. Rimangono così isolati gli Stati Uniti, tra i protagonisti dei negoziati nella capitale francese sotto la presidenza di Barack Obama e oggi impegnati in una radicale revisione delle loro politiche in materia ambientale con Donald Trump. L’annuncio del ritiro statunitense dall’intesa – arrivato a giugno – non potrà però essere formalizzato prima del novembre 2019 ed eventualmente il ritiro vero e proprio non avverrà prima del novembre 2020, in concomitanza con le nuove elezioni presidenziali.

Nonostante la brusca virata del presidente, diversi Stati e città degli USA hanno confermato di voler comunque onorare gli impegni assunti per lotta al cambiamento climatico.