Bernenger Serpenti in libertà

Fuggito da Cincinnati, è diventato una star dell’indie rock Dalla guida dei National al primo disco solista Titolo: ” Serpentine Prison”. « I rettili non sono cattivi »
di Filippo Brunamonti
C’è qualcosa di pacifico in una giornata di nuvole in California».
Matt Berninger è seduto in un garage con tre specchi grandi. La sua casa è su un poggiolo; nel patio una poltrona sfondata. Le sue canzoni, dice, arrivano dal cielo. «Come frecce».
Recluso sul punto più alto di un canyon, il frontman della band indie rock The National si prepara al lancio del suo primo album da solista, Serpentine Prison, in uscita il 2 ottobre, prodotto dal polistrumentista Booker T. Jones, l’architetto del suono dell’etichetta Stax a Memphis. Un nuovo inizio. O forse no: «Ho quasi cinquant’anni, una figlia di dieci. Mi sento vicino alla fine. La fine del mondo».
Chi è Matt Berninger oggi?
«Un uomo in divenire. Dopo aver studiato graphic design a Cincinnati, sono fuggito a New York. Negli anni Novanta era come passare dal Kansas al magico mondo di Oz. La vita in ufficio mi stava stretta, volevo fare il musicista.
Prima ho formato la garage band Nancy, dal nome di mia madre, poi, grazie a una residenza al Luna Lounge, sono nati i National.
Vent’anni sul palco e molto altro ancora ci aspetta. Ora vivo per conto mio in una L.A. in technicolor. Tutte le mattine mi sembra di entrare in una fabbrica di colori. È da qui che traggo ispirazione».
Perché ha deciso di realizzare un disco staccato da The National?
«Da dieci anni fantasticavo su un lavoro tutto mio. Ero solo indeciso: mi butto sulle cover o riparto da zero? Lo scorso Natale ho cominciato a metterci mano, accompagnato da Booker T. Jones che ha prodotto Stardust di Willie Nelson, pietra miliare. È un maestro; sa catturare l’umanità in uno studio di registrazione. Ti sembra di sentire il sudore, la marijuana, il vino, l’acqua di colonia. Lo sguardo e gli sputi che si lanciano i musicisti.
Cercavo quel senso d’intimità che una band non ha. Da qui l’idea di usare un dipinto di Michael Carson per l’uscita del singolo, Distant Axis, qualcosa di elegante e classico, qualcosa che facesse pensare a un disco generalista. Sono un pittore e credo che musica e pittura debbano incrociarsi, prima o poi, se vogliono mettersi al passo con il mondo».
Chi ha messo Matt Berninger al passo con la vita?
«I miei genitori. Mio padre è avvocato, mamma un’insegnante.
Tutti e due, nel tempo libero, hanno sempre coltivato le loro passioni artistiche: disegno, pittura, scultura, artigianato. Avremo avuto sì e no dieci vinili in casa. Ricordo In My Life di Judy Collins, Killing Me Softly di Roberta Flack e la colonna sonora di
Grease sempre in loop. Insieme a Waylon Jennings e Barry Manilow. E naturalmente Stardust. Questa zuppa musicale è il mio Ground Zero. Una coperta calda per tutta la famiglia. La nostra casa diventava un tutt’uno con il dramma e la commedia della vita».
“Serpentine Prison” è un titolo da prigioniero o da uomo libero?
«Per me è un titolo divertente.
Somiglia a quello di una band heavy metal ma ha diversi significati: potrebbe essere un serpentino, il pezzo di uno “scambiatore di calore”, suggeritomi da mio fratello (Tom Berninger, co-regista del video del primo singolo, ndr), oppure un omaggio al Serpentine Wall, luogo storico di Cincinnati, una rampa di scalini che forma un grande muro sull’Ohio River sullo Yeatman’s Cove, dove andavo a ubriacarmi e a fumare con gli amici. Comunque mi piacciono i serpenti. Non credo siano cattivi. Mettere un serpente dietro le sbarre è impossibile: riuscirà sempre a scappare. Una prigione però ce l’ho. La mia mente.
Capita di sentirmi represso, bruciato. Soffro d’ansia tutte le volte che salgo sul palco con i National; devono preparare un gobbo sennò scordo le canzoni».
Dopo le elezioni americane del 2016 ha detto che i National avevano il compito di diventare un “aspirapolvere del sessismo e del razzismo americano”. A che punto siete con le pulizie?
«Ah, beh, sono ottimista. No, non è vero, sono depresso, frustrato, esausto. E arrabbiato! Nonostante tutto, non perdo la speranza. Lo so che è difficile restare ottimisti con Trump alla Casa Bianca. È un periodo storico fatto di shock dopo shock. Sono cattolico, mi batto per i diritti delle donne e non riesco ancora a capire come l’America abbia potuto eleggere Trump.
Persino i cristiani lo votano. In nome di cosa? Della Bibbia? La Bibbia è un’opera d’arte ma è anche piena di falsità. Trump non può e non deve decidere cosa fare col corpo delle donne. È il truffatore più disgustoso che si sia mai visto. Usa la paura per limitare la libertà: paura delle donne, paura delle persone di colore… Vorrei che si sedesse al tavolo con una giovane donna che sceglie l’aborto e capisse cosa vuol dire».
Che rapporto ha con il peccato?
«Prima di aprire i concerti dei R.E.M. (nel tour di Accelerate), prima di vincere un Grammy con Sleep Well Beast e unirmi alla campagna Signs of Hope and Change di Obama, io conoscevo soltanto il recinto di casa e la chiesa Our Lady of Visitation. A 9 anni non sapevo cosa fosse un ebreo. A Cincinnati tutto quello che avevo erano quella chiesa, quella croce, quegli affreschi, quel trentenne hippie in mutande sull’altare, col sangue che cola sulla punta delle unghie e gli occhi fissi su di me.
Come dire: “Matt, se sono morto, è tutta colpa tua”. Sono cresciuto con un gran senso del grottesco. Mi odiavo quando mi masturbavo. Mi odio ancora! All’epoca Padre Mike e Padre Jack, i preti della comunità, mi hanno salvato la vita. Così progressisti, così aperti. Uno di loro un giorno sbotta e dice: “Hey! Non c’è solo Gesù, figliolo. Anche Nick Cave è un profeta, sai?”. Da quel momento, nei timpani ho fatto entrare il soul, Nina Simone, Leonard Cohen. Le parole cantate erano Sacre Scritture per me. Non so se esista il paradiso. So che esiste il rock and roll. E di rock, ora, abbiamo proprio bisogno».
Robinson – la Repubblicawww.repubblica.it › robinson