Più forte dell’ Amore

Teatro
Idee
Furiosa, profonda, platonica. La complicata relazione tra la poetessa Ingeborg Bachmann e il compositore Hans Werner Henze protagonista di “Fuga a tre voci”. Il debutto da drammaturgo di Marco Tullio Giordana
Francesca De Sanctis
Ingeborg e Hans, la «dolce fanciulla color pastello» e «il ragazzo biondo», la «carissima ragazza dubbiosa» e il «caro, caro, caro amico». Scrittrice, poetessa, giornalista austriaca di una straordinaria intelligenza lei, raffinato compositore tedesco lui, Ingeborg Bachmann e Hans Werner Henze, nati entrambi nel 1926 a pochi giorni di distanza, si sono incontrati giovanissimi, nell’autunno del 1952, e subito si sono adorati, anche se il loro amore è sempre rimasto “platonico”. Lui omosessuale, lei lacerata da infinite relazioni infelici (fra cui quella con Max Frisch o con Paul Celan), eppure alla continua ricerca l’uno dell’altra, avvinghiati da un rapporto intimo e profondo, come dimostrano le tante lettere scritte che hanno ispirato lo spettacolo teatrale pronto a debuttare il 1° agosto al Teatro Poliziano di Montepulciano (Siena) nel cartellone del 45esimo Cantiere Internazionale d’arte (di cui Henze è il fondatore): Fuga a tre voci, scritto e diretto da Marco Tullio Giordana, regista di tanti film e spettacoli di successo, da “I cento passi” sul grande schermo a “Questi fantasmi!” in palcoscenico, e qui al suo debutto come drammaturgo, con Michela Cescon nei panni della Bachmann, Alessio Boni in quelli di Henze, e Giacomo Palazzesi alla chitarra. Una vera e propria partitura musicale quella che si delinea in scena, concepita come una buca d’orchestra, dove per la prima volta in teatro verrà raccontata questa strana e affiatata relazione fra la scrittrice e il musicista (qualche anno fa Sonia Bergamasco diede voce a Ingeborg Bachmann interpretando “Il trentesimo anno”).
«Inge e Hans hanno un legame forte, è un grande amore senza eros eppure così potente», racconta Marco Tullio Giordana, colpito soprattutto dal senso di pudore e dalla generosità priva di veli che traspaiono da queste lettere. «Quando si conoscono sono entrambi giovani promettenti, lei diventerà una grande scrittrice e sopratutto una bravissima poetessa, lui un eccentrico e talentuoso compositore classico, uno dei pochi ad aver scritto musica per la chitarra senza saperla suonare (ho tentato di suonarla anch’io, ma non ci son riuscito!)», continua: «Tra loro si instaura subito un legame speciale, intimo e familiare. Lui ad un certo punto le chiede anche di sposarlo, lei accetta, ma poi lui fa un passo indietro. Per un periodo convivono in Italia e naturalmente lavorano anche insieme». Hans le chiese di scrivere alcuni libretti delle sue opere, fra cui “Il principe di Homburg”, basato su un testo di von Kleist. La musica è sempre stata presente fra di loro, ecco perché lo spettacolo si chiama “Fuga a tre voci” e i personaggi sono tre: Hans, Ingeborg e la chitarra di Giacomo Palazzesi.
«Appena ho letto la loro corrispondenza ho pensato: questo è uno spettacolo teatrale… E così ho riscritto, sintetizzato, contaminato fra loro circa duecento lettere, quelle non spedite. Ho immaginato di averle ritrovate in una vecchia Maserati, un tempo appartenuta a Hans Werner Henze. Lettere in alcuni casi illeggibili e scritte in diverse lingue, dal tedesco al francese, sparse tra i pezzi dell’auto smontati e ammassati negli scatoloni e poi recuperate per essere trascritte e infine portate in scena». Che fosse vero o no il ritrovamento nella vecchia Maserati, di certo il carteggio fra i due è realmente esistito ed è proseguito per oltre vent’anni, dal 1952 al 1973. Parzialmente dato alle stampe nel 2008, è raccolto in un libro che si intitola “Lettere da un’amicizia” (a cura di Hans Holler, Edt).
Sono carte piene di pathos e di sentimento, ma prive di pettegolezzi, sono parole e frasi d’amore per la vita e di disperazione, di gioia e di dolore, e in cui si intrecciano tanti temi, molti dei quali presenti nelle loro opere: la sfiducia nella Germania nazista e conformista, quindi la fuga verso il Sud, la passione per Italia, Ischia, Napoli, Roma, l’isolamento intellettuale e l’impegno politico (entrambi sostennero la candidatura del socialdemocratico Willy Brandt), il successo e il difficile equilibrio fra amore, scrittura, vita.
Quando il 17 ottobre 1973 Ingeborg morirà, a Roma, dopo una lunga agonia in ospedale – uccisa dal fuoco di una sigaretta che avvolse la sua vestaglia di nylon durane un attacco di torpore dovuto ai barbiturici che stava assumendo – lui non si darà pace. Continuerà ad essere lacerato dai sensi di colpa, per averlo saputo in ritardo e per non essere riuscito a fare nulla. Coninuerà a cercarla nei suoi sogni e ovunque attorno a lui, come racconta anche in una delle lettere: «Ogni tanto mi succede di rivederti. Per strada, in un negozio… qualche volta in casa o nel giardino». Un grande amore, dunque, come quello fra Abelardo ed Eloisa, il teologo e la fanciulla, che infiammò la Parigi dell’anno Mille prima di trasferirsi su carta, nelle loro lettere, l’unico luogo in cui poter dialogare anche di libri e di filosofia, del mondo e della vita.
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