Pil giù e lavoro su
di Dario Di Vico
Ieri su Twitter ha conosciuto un discreto successo il commento del profilo satirico Vujadin Boskov che ha inquadrato il doppio dato Istat alla maniera dell’indimenticato allenatore blucerchiato: «Ma se disoccupazione scende e Pil è fermo, nuovi assunti sta tutti in tribuna». È solo una battuta e non va certo presa alla lettera ma le rilevazioni statistiche di ieri, più che alla solita intemerata politica, si prestano a tentare di capire dove sta andando l’economia italiana, caratterizzata da un Pil in piena stagnazione e un’occupazione a livelli alti. Che cosa sta accadendo? Per rispondere è bene partire individuando l’epicentro della stagnazione e purtroppo ciò rimanda alla manifattura, asset di eccellenza del nostro sistema-Paese. La fascia alta del sistema industriale viene da anni di inaspettati e clamorosi successi nell’export, nessuno all’inizio della Grande Crisi avrebbe mai scommesso sul fatto che ne saremmo usciti ridimensionati dal punto di vista quantitativo ma molto più internazionalizzati di prima. Quel traino non c’è più per via delle turbolenze commerciali legate alle politiche di Trump ma anche perché il nostro punto di riferimento, il sistema-Germania, si è inceppato. E non a caso a risentirne più di altri territori è la Lombardia manifatturiera, la regione di gran lunga più legata all’economia tedesca e largamente presente nell’importante catena del valore dell’automotive.
L a nostra industria medio-grande è anche alle prese con una trasformazione digitale che procede a macchia di leopardo ma che si sta rivelando estremamente impegnativa per i gruppi dirigenti e sta mostrando un deficit di capitale umano sconfortante. Diverso è il tipo di sofferenza del sistema delle Pmi: i dati non segnalano una nuova selezione darwiniana dopo quella del 2008-15 ma il sistema va alla spicciolata. Chi riesce a tenersi agganciato ai grandi sistemi di fornitura ha guadato il fiume, chi è in grado di andare sui mercati esteri da solo viaggia a testa alta, chi invece è costretto nel recinto del mercato interno — la maggioranza — è davanti a un rompicapo per conciliare stasi dei consumi, concorrenza dei prodotti cinesi e l’esigenza (teorica) di migliorare la qualità delle produzioni. Tutti questi percorsi, sommati, non aiutano l’economia italiana a uscire dalla stagnazione, ma anzi segnalano rischi di retrocessione. Difendere settore per settore il vantaggio competitivo italiano in presenza di tante discontinuità tecnologiche e di mercato è una fatica di Sisifo, per i grandi e per i piccoli. Possiamo aggiungere anche che la propensione delle multinazionali a realizzare nuovi investimenti, della taglia di Lamborghini e Philips Morris, sembra essere scemata, vuoi per i problemi più generali dell’economia globale, vuoi anche per il clima non propriamente favorevole che si respira nella politica italiana.
L’Istat ci dice, però, che a fronte delle difficoltà della manifattura un contributo positivo arriva dall’occupazione e dai servizi. Nel primo caso si tratta però di un incremento fatto di part time involontario, sembrano aumentare le teste che lavorano ma non la somma delle ore. Siamo arrivati ai mini jobs senza averlo deciso e proliferano soprattutto nel terziario. Ma, ed è questa la domanda chiave, che tipo di terziario? Ad alta intensità di lavoro ma a basso valore aggiunto: potremmo chiamarlo un terziario mediterraneo fatto di tanta ristorazione fuori casa, affitti via Airbnb, servizi turistici low cost, minimarket, logistica e-commerce, occupazione stagionale, scivolamenti nel sommerso e, in aggiunta, posti statali. Sono in vista, infatti, perlomeno due stock di assunzioni pubbliche con i navigator e il personale docente della scuola. Se volessimo proiettare, pur senza esagerare, tutto ciò in chiave politica potremmo dire che questo modello mediterraneo assomiglia più a Di Maio e alla constituency 5 Stelle che a Salvini principe del Nord (per inciso la mini flat tax per le partite Iva non sta funzionando: -58 mila occupati autonomi in un solo mese). Complessivamente però il rischio che si intravede all’orizzonte riguarda l’intero sistema-Paese che assomiglia a un ascensore in discesa di un piano se non due. Perché la contraddizione tra un Pil stagnante e un’occupazione resiliente ha, purtroppo, un solo possibile esito: il primo che contagia la seconda.
Ps. In questa ricostruzione resta da spiegare Milano e il suo modello di terziario europeo. Ma ci sarà modo e luogo per discuterne .