La prima fase della guerra in Siria sta volgendo al termine e, visti gli ultimi movimenti alle frontiere, già si intravede l’inizio della seconda, meno confusa, più tattica e con intermezzi di carattere diplomatico. Quello durato sette lunghissimi anni è stato un conflitto in cui il governo di Damasco si è ritrovato a combattere due gruppi armati dentro ai suoi confini nazionali. Allo stato attuale Jabhat al-Nusra, ramo siriano di al-Qaida, si è trincerato nella provincia di Idlib, mentre lo Stato islamico (Daesh per i media arabi) del califfo Abu Bakr al-Baghdadi – ferito lo scorso mese da un raid aereo – è stato sradicato dal territorio grazie al supporto militare dei pasdaran iraniani, dei guerriglieri di Hezbollah e dell’aviazione russa intervenuta nel Paese a partire dal 30 settembre 2015. Contro ogni aspettativa Bashar Assad è riuscito a tenere unito il partito Baath, a mantenere le redini del governo in un’epoca dove è sempre più difficile sfuggire alla logica del regime change, ma soprattutto ad ottenere una parziale vittoria tanto sul piano bellico quanto su quello diplomatico.
Sul fronte militare, senza contare la sacca di Duma, non lontana da Damasco, e la parte orientale dove è l’Eufrate a tracciare, per ora, le linee di demarcazione territoriale, l’esercito siriano è oggi impegnato principalmente nella parte settentrionale della provincia di Idlib (da poco è stato riconquistato l’aeroporto di Abu Duhur).
Sul fronte diplomatico, invece, a Sochi si è svolto il Congresso per il dialogo nazionale siriano (Syrian national dialogue congress), fortemente voluto da Vladimir Putin, con il patrocinio di Russia, Iran e Turchia, a cui hanno partecipato 1.500 rappresentanti di quasi tutte le fazioni siriane (non vi hanno preso parte i Curdi del PYD, il Partito di unione democratica, sostenuti dagli occidentali, e l’Alto comitato per i negoziati, che invece è appoggiato dai sauditi). Dalla riunione, a cui ha presenziato anche il Rappresentante speciale delle Nazioni Unite Staffan de Mistura, è emersa la volontà di porre le basi della riconciliazione e dell’unità nazionale attraverso l’organizzazione di una Commissione costituente capace di diventare un attore diplomatico di peso nei negoziati ufficiali che si svolgeranno a Ginevra.
Guerra e diplomazia continuano ad intrecciarsi in attesa di trovare una soluzione definitiva. La verità è che Bashar Assad potrebbe accontentarsi di riconquistare la provincia Idlib, negoziata appunto da Mosca con Ankara in cambio della sorte dei Curdi – si veda l’offensiva Ramo d’ulivo avviata lo scorso 20 gennaio nell’enclave di Afrin, nel Nord della Siria, che ha visto già la morte di 31 soldati e oltre 140 feriti. Così il governo di Damasco, con l’avallo della comunità internazionale, potrebbe stabilizzare la parte centrale del Paese, da Damasco ad Aleppo, strutturare un piano economico nazionale e avviare un piano globale per il rimpatrio di milioni di rifugiati. Tuttavia, avviare un processo di pacificazione significa cedere porzioni di sovranità territoriale. È questo il punto debole di Assad, che i suoi avversari internazionali – i governi di Washington, Ankara e Tel Aviv – conoscono perfettamente; ed è per questo che proprio ai confini vanno a colpire. Se prima gli attacchi della Turchia nella parte nordoccidentale erano progressivi, ora sono massicci, tanto che i bombardamenti vengono seguiti dall’avanzamento delle truppe. Gli Stati Uniti invece si sono asserragliati nella parte nordorientale, ricca di pozzi petroliferi, al fianco delle Forze democratiche siriane (forze supplementari degli Usa composte da Curdi indipendentisti) e non esitano a bombardare le postazioni militari governative come è avvenuto pochi giorni fa nei pressi di Deir Ezzor. Infine, Israele – che dal 2011 ha già colpito in Siria con un centinaio di raid – ha attaccato nuovamente, il 10 febbraio, una base iraniana sul suolo siriano, cui è seguita una risposta immediata che ha portato all’abbattimento di un F-16 israeliano da parte dei sistemi di difesa di Damasco. L’avvertimento a questo punto sembra essere uno solo: il leader alawita è riuscito a rimanere al potere, ma il Paese che governerà non sarà più lo stesso. È qui che inizia la seconda fase della guerra in Siria.