Nel centenario della nascita di Federico Zeri (1921-’98) esce un volume in suo onore, esito di un seminario di tre anni fa. Nel settembre del 2018, presso l’istituzione bolognese a lui intitolata, la Fondazione Federico Zeri, che ne custodisce la biblioteca e l’incredibile fototeca, ebbero luogo tre giornate incentrate sullo studioso, scomparso vent’anni prima nella sua casa di Mentana. Dal 2015, con un seminario su Roberto Longhi, la Fondazione è infatti sede di importanti occasioni di approfondimento sui più illustri conoscitori del passato. Ad Andrea Bacchi, Daniele Benati e Mauro Natale si deve l’organizzazione dell’incontro del 2018 e la curatela del volume – Il mestiere del conoscitore Federico Zeri –, edito dalla stessa Fondazione e da Silvana Editoriale (pp. 464, illustrato, euro 34.00), che riunisce gli interventi di sedici specialisti.
I saggi rispecchiano solo in parte i vari interessi di Zeri testimoniati dalla sua densa produzione scritta, un lascito che conta poche monografie. La sua predilezione per la forma breve, come articoli e segnalazioni, si accordava al suo caratteristico lessico asciutto, lontano dalla prosa preziosa tipica di Longhi, forse l’aspetto su cui si misura di più la distanza da colui che fu uno dei suoi maestri. Come qui scrive Marco Collareta, l’ambizione di portare le proprie riflessioni su un piano scientifico, e in qualche misura internazionale, fu alla base di tali scelte comunicative, influenzate anche dai contatti col mondo anglosassone, soprattutto durante la collaborazione con musei americani.
Al centro delle indagini di Zeri fu sempre l’opera nelle sue proprietà formali, in linea con un approccio aderente agli oggetti ed estraneo alle divagazioni teoriche. Per tali ragioni la scheda di catalogo, genere con cui si misurò per raccolte sia italiane sia straniere, rappresentò uno degli spazi di lavoro a lui più congeniali. Ciò emerge sin dalla sua prima impresa di questo tipo, il catalogo della Galleria Spada (1954, Sansoni), che Liliana Barroero illusta qui come un punto di riferimento, anche per le proposte attributive mai messe in discussione.
Il volume gravita attorno all’attenzione di Zeri per i più diversi fatti artistici della Penisola, dalla Roma duecentesca di Pietro Cavallini, indagata da Serena Romano, alla pittura barocca, perlopiù romana, al centro dell’intervento di Alessandro Brogi. Il Quattrocento fu comunque l’oggetto precipuo delle sue ricerche, in particolare quello delle aree periferiche, con un posto d’onore per l’Umbria e le Marche. Zeri non fu però indifferente ad altri luoghi poco battuti dalla critica, come l’Italia nord-occidentale al tempo di Donato de’ Bardi, artista lombardo che, prima del suo intervento, era noto solo dalla Crocifissione di Savona. L’incremento del corpus, più precisamente, fu determinato dall’associazione al maestro della firma, fino ad allora problematica, su un trittico di New York, per il quale Mauro Natale, che qui torna sul tema, propone una provenienza dalla chiesa di Santa Margherita ad Alba.
L’articolo su de’ Bardi costituisce un modello anche sotto altri punti di vista, perché l’inquadramento del pittore accompagna la messa a fuoco della realtà culturale, a metà Quattrocento, tra Lombardia e Liguria. Per Zeri, infatti, l’attribuzione non era mai fine a se stessa, ma uno strumento per comprendere un contesto storico a tutti i livelli, aspetto che emerge con forza programmatica nel suo primo libro, Pittura e Controriforma (1957, Einaudi), dedicato a Scipione Pulzone e ad altri maestri della Roma di fine Cinquecento, e qui ripercorso da Patrizia Tosini.
La ricomposizione di pale e polittici smembrati fu, forse, il settore in cui Zeri diede meglio prova della sua eccezionale memoria visiva, attenta a dati apparentemente secondari, tecnici e materiali. L’argomento affiora spesso nel volume, in particolare nei contributi di tema quattrocentesco, come quello di Emanuela Daffra sul veneziano Carlo Crivelli, di cui Zeri ricostruì vari complessi dipinti tra cui quello di Porto San Giorgio, le cui tavole risultano oggi disperse in musei di tutto il mondo.
Tra le sue maggiori conquiste in questo ambito va annoverato il polittico dell’Arte della Lana di Sassetta, una delle opere più martoriate del Quattrocento senese. L’idea di collegare allo sfondo del pannello centrale le due tavole della Pinacoteca Nazionale di Siena, in cui a lungo ed erroneamente la critica aveva individuato incunaboli della pittura di paesaggio riferibili ad Ambrogio Lorenzetti, è una delle sue intuizioni più brillanti, come afferma Alessandro Angelini nel suo saggio. A tale campo di lavoro è comunque dedicato un approfondimento specifico, a firma Andrea De Marchi, che rievoca alcuni eccezionali risultati dello studioso, e avanza riflessioni finora inedite. Alla luce di nuove prove De Marchi propone la pertinenza a un medesimo dossale per alcune tavolette trecentesche, fra cui un Cristo passo ad Avignone, oggi riconosciute al giovane Giovanni Baronzio, opere che erano state già avvicinate da Zeri per certe affinità stilistiche, lasciando forse intendere un nesso strutturale, senza però esprimersi in modo netto.
La struttura del ragionamento nei suoi scritti costituisce un’ulteriore peculiarità di grande fascino. Il ritmo con cui sono svelati progressivamente gli indizi e l’occultamento dei retroscena della ricerca lasciano infatti trasparire un intuito straordinario, quasi stregonesco. L’intervento di Zeri sull’autore della pala quattrocentesca già in collezione Muti-Bussi, da lui battezzato Maestro dei Baldraccani per lo stemma dell’omonima famiglia forlivese, rappresenta per Daniele Benati un vertice di tali strategie, per il modo in cui lo studioso narrava di essere giunto alla decifrazione dell’arma gentilizia che ha confermato l’origine romagnola dell’autore. Permangono ancora dubbi sull’identità anagrafica di tale pittore, che resta solo uno dei diversi artisti tuttora anonimi di cui Zeri ha ricomposto e ampliato il catalogo.
Tra gli esempi più celebri è il Maestro di Hartford, un misterioso artefice di nature morte in cui lo studioso riconosceva il giovane Caravaggio, ipotesi ormai difficile da accettare, come mostra il saggio di Alessandro Morandotti. Zeri stesso, tuttavia, affermò che «ogni attribuzione contiene un fondo di verità», essendo legata allo stato delle conoscenze del suo tempo, e costituisce sempre un’approssimazione alla soluzione. Emblematico al riguardo è il caso del Maestro delle Tavole Barberini, oggetto di un suo libro del 1961 (Einaudi), qui ripercorso da Neville Rowley. L’errore anagrafico di Zeri, che identificava il pittore con Giovanni Angelo da Camerino, mentre la critica vi ha poi riconosciuto l’urbinate Fra Carnevale, non ha infatti compromesso la sua ricostruzione del corpus e l’inquadramento entro le Marche quattrocentesche. Numerosi altri campi di studio furono setacciati da Zeri, per esempio il Tardogotico umbro, al centro del contributo di Mauro Minardi, o gli «eccentrici» della Firenze di primo Cinquecento, qui indagati da Carlo Falciani, oppure il Rinascimento meridionale, su cui torna Riccardo Naldi proponendo pure nuove attribuzioni allo Pseudo Scacco.
Per quanto il suo primo terreno d’indagine sia stato la pittura, Zeri non fu disinteressato alla scultura, di cui fu peraltro appassionato collezionista. A lui si devono alcune eccezionali scoperte sul giovane Gian Lorenzo Bernini in bottega dal padre Pietro, come sottolineato da Andrea Bacchi, che ricorda come esse abbiano trovato spazio solo in segnalazioni, e mai in articoli di ampio respiro. Rifiutando la distinzione tra conoscitore e storico dell’arte avanzata da Erwin Panofsky, secondo cui il primo è uno «storico dell’arte laconico» e il secondo «un conoscitore loquace», Bacchi descrive lo Zeri non meno geniale di queste diagnosi un «conoscitore laconico», capace in poche righe di risolvere importanti problemi di critica.
In diversi saggi è inoltre fatta risuonare una celebre frase di Pietro Toesca, con cui Zeri si laureò alla Sapienza nel 1945: «prima conoscitori, poi storici». Quel motto appare ancora oggi come la regola morale di una scuola, e dovette riecheggiare nella mente di Zeri per tutta la vita, come prova anche quanto da lui dichiarato nel 1990: «per essere autentici storici dell’arte è necessario essere buoni conoscitori».