Zaki, non soltanto lui

La vicenda dello studente dell’università di Bologna è da inserire nel contesto delle discriminazioni ai danni della minoranza religiosa copta in Egitto, e soprattutto all’interno della durissima repressione messa in atto da un regime criminale

Patrick Zaki punta l’indice contro il regime egiziano. Motivo: le discriminazioni contro il suo gruppo religioso, i copti di fede cristiana, originari proprio dell’Egitto. Il giovane studente dell’università di Bologna è da diciannove mesi in carcere. Lo scorso 14 settembre si è svolta la prima udienza del processo che ha visto cadere tutti i capi d’accusa, tranne quello relativo a “diffusione di notizie false”. Che sarebbero quelle che denunciano le vessazioni subite da questa minoranza religiosa.

Il tema è controverso. Fin dagli anni Settanta la comunità copta – il 10% su una popolazione di cento milioni di abitanti – è al centro di gravi episodi. Nel 1981 il regime di Sadat arrestò ed esiliò Papa Senuzio III, poi liberato da Mubarak. Fatto senza precedenti. In seguito, ci sono stati per decenni rapimenti di donne copte date in moglie a uomini musulmani. Ciò almeno fino al 2009, quando la statunitense Michele Clark e la copta Nadia Ghaly, esperte del triste argomento della tratta degli esseri umani, realizzarono un rapporto-denuncia contro questa pratica orrenda. Senza contare gli attentati e la distruzione di chiese da parte di terroristi islamici, e il periodo della presidenza Morsi (2012-2013), esponente dei Fratelli musulmani, quando centomila membri della comunità preferirono fuggire dal Paese.

Dall’arrivo al potere, già nel 2013, di al-Sisi – fautore e organizzatore di una terribile repressione nei confronti dei dissidenti, nel cui contesto ha trovato la morte il nostro Giulio Regeni –, la condizione dei copti invece è migliorata. L’obiettivo del generale è quello di realizzare un’armonia confessionale, centrale nella lotta contro gli islamisti. Una svolta storica c’è stata il 5 gennaio 2019, quando il presidente egiziano ha preso parte, nella futura capitale amministrativa del Paese (un progetto faraonico ancora in corso d’opera), all’inaugurazione della più grande cattedrale copta mai costruita, realizzata anche grazie al contributo del regime. Proprio a fianco dell’imponente edificio che sarà la più grande moschea dell’Egitto. L’episodio che ha accelerato la costruzione di un luogo santo così significativo è stato, nel 2017, il doppio attentato kamikaze dell’Isis contro le chiese copte di San Marco ad Alessandria e di San Giorgio a Tanta, con un bilancio di quarantasette morti: atti entrambi finalizzati a destabilizzare il regime. E il mutamento di rotta è stato sottolineato dalla partecipazione di al-Sisi alle celebrazioni del Natale copto, che si svolgono il 7 gennaio, tenute con imponenti misure di sicurezza, sulla cui efficienza sono peraltro leciti i dubbi, dopo lo spaventoso attentato del 2016, anche in questo caso nei pressi di una chiesa copta, che provocò ventiquattro morti e una cinquantina di feriti.

Malgrado il clima più disteso tra governo e copti, restano nell’insieme difficili – come denuncia appunto Zaki – i rapporti tra musulmani e cristiani. È evidente che sia nella società civile, sia all’interno degli apparati dello Stato e nelle forze dell’ordine, permangano elementi di ostilità nei confronti dei copti. Nell’articolo scritto da Zaki nel 2019 per il sito egiziano “Darraj”, lo studente denuncia una serie di gravi episodi di discriminazione. Per esempio, all’indomani di un attentato fondamentalista che aveva provocato la morte di quattordici membri delle forze dell’ordine, uno dei quali copto, era stata avanzata la proposta di dedicargli una scuola nella sua città natale. “Qualche ora dopo – scrive Zaki – la popolazione di quella città aveva fatto pressioni per impedirlo”. La decisione è stata così revocata, e al milite è stato intitolato solo un ponte situato sopra un canale. Insomma le autorità egiziane sono facilmente condizionabili da quella parte di popolazione, di fatto razzista, che considera i copti come cittadini di serie B.

Altro punto dolente, segnalato da Zaki, riguarda la valenza delle testimonianze cristiane nell’ambito dei processi. In proposito viene citato il caso di un ingegnere che aveva lavorato in un’istituzione pubblica per trentacinque anni, la cui testimonianza è stata rifiutata dal giudice perché quella di un cristiano. Questo succede, secondo quanto denuncia Zaki, malgrado “l’articolo 53 della Costituzione affermi che i cittadini sono uguali di fronte alla legge e abbiano gli stessi diritti, libertà e doveri pubblici, e come non debba esserci discriminazione fra di essi che sia di carattere politico, religioso o di qualsiasi altro tipo”.

La condizione dei copti si inserisce, com’è noto, in un contesto in cui il rispetto dei diritti umani non è certamente una delle principali preoccupazioni del regime. Collocato in un quadro regionale in cui, sia pure con delle differenze tra loro, ci sono regimi autoritari o con forti tendenze autoritarie, l’Egitto è al primo posto in quanto a uccisioni, detenzioni arbitrarie (sono sessantamila i detenuti politici nelle carceri egiziane, in maggioranza appartenenti ai Fratelli musulmani) e torture inflitte anche a chi esige soltanto libertà di espressione, come i giornalisti. Le pacifiche manifestazioni di protesta vengono regolarmente disperse con la forza, con arresti e trasferimenti nell’inferno delle carceri dove, nell’ultimo anno, hanno perso la vita ben trentacinque persone. Anche chi, in ambito sanitario, ha osato esprimere qualche dubbio o preoccupazione intorno al modo in cui si sta affrontando la pandemia ha subìto gravi conseguenze.

Tutto questo in una cornice in cui gli scomparsi sono all’ordine del giorno, come nell’America latina di qualche decennio fa. Mentre allora, però, il raccapricciante fenomeno dei desaparecidos suscitò in Europa costernazione e solidarietà nei confronti delle vittime, nel caso dell’Egitto ogni forma di denuncia sembra dimenticata. Una sollevazione si è vista solo quando a farne le spese è stato un nostro concittadino, barbaramente assassinato sotto tortura, o appunto nel caso della detenzione inflitta a Zaki. Per il resto regna l’indifferenza, benché l’Egitto sia a due ore di volo dall’Italia. Ma il fatto che sia uno dei principali partner commerciali del nostro Paese, per l’estrazione di gas e la vendita di armi, definisce un quadro di relazioni internazionali difficilmente condizionabile dalla rivendicazione del rispetto dei diritti umani. Nonostante il caso Regeni, infatti, le esportazioni italiane verso l’Egitto hanno raggiunto i tre miliardi di euro, con un aumento del 27,4% rispetto al 2019. Il che è alla base dell’immobilismo sia dei due governi Conte sia dell’attuale esecutivo guidato da Draghi. Di fronte al denaro, il rispetto dell’habeas corpus passa in secondo piano, malgrado i corpi straziati e i prigionieri torturati. A dispetto – si può infine aggiungere – di ogni visione dell’evoluzione storica, secondo cui sarebbe scontato il passaggio da un brutale stato di natura a uno di civiltà.

 

 

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