Doccia fredda per il lavoro culturale: «Esclusi dagli sgravi contributivi»

Le imprese culturali di natura cooperativa che operano nei musei, nei beni culturali o nelle biblioteche sono state escluse dagli sgravi sui contributi previdenziali previsti nel decreto sostegni bis. Lo sostiene Giovanna Barni, presidente di CulTurMedia, che rappresenta mille cooperative e decine di migliaia di occupati nei settori dei Beni culturali e dello spettacolo, del turismo e della comunicazione.

La lettura della circolare dell’Inps diffusa ieri per chiarire la norma prevista nel decreto e destinata ai datori di lavoro dei settori del turismo, del commercio e della cultura (in cambio dei benefici non potranno licenziare fino al 31 dicembre 2021) «è stata una doccia fredda – sostiene Barni – Nella circolare è infatti considerato lo spettacolo ma non le attività legate ai musei, ai beni culturali, alle biblioteche, imprese che sono state chiuse per mesi e hanno riaperto con numeri ridotti».

Prima di apprendere la notizia nella relazione di metà mandato tenuta ieri Barni ha ricostruito la vicenda dei «ristori», esemplare del modo frammentario e categoriale in cui il Welfare è stato concepito anche durante la fase più drammatica della pandemia: «Ci sono stati settori e cooperative escluse o solo parzialmente contemplate dai vari decreti e bonus perché non rientravano in questo o in quel codice Ateco, altre sono state escluse a causa di un tetto di 10 milioni di euro che non avrebbe dovuto essere applicato alla cooperazione del settore – sostiene – L’esistenza dell’impresa culturale e dei suoi lavoratori non può essere appesa a una classificazione che non permette di cogliere la natura ibrida, cooperativa e multidisciplinare del lavoro culturale. Penso a Palazzo Merulana a Roma che è diventato un “community hub”, a chi opera nelle residenze degli artisti o nella rigenerazione urbana. Senza questi sgravi si rischia di non potere sostenere il ritorno al lavoro».

In una ricerca presentata ieri durante l’assemblea conclusa dal presidente di Legacoop Mauro Lusetti, dove sono intervenuti tra gli altri, la sottosegretaria al Ministero dello sviluppo economico Anna Ascani e l’ europarlamentare Massimiliano Smeriglio, sono emersi i dati sulla crisi di un settore il cui fatturato è calato di oltre il 58% nel 2020. Il lavoro a tempo indeterminato è rimasto sostanzialmente stabile, ma il blocco totale delle attività ha colpito i precari e le partite Iva, i primi sono diminuiti del 53%, le seconde del 43%, in misura inferiore al calo del fatturato. «Questo significa – commenta Barni – che la cooperazione si è fatta carico del mantenimento dei posti di lavoro con l’aiuto degli ammortizzatori sociali. Ora però bisogna permettere il ritorno al lavoro di tutti e la tutela dei diritti di chi svolge un’attività intermittente». In questa direzione è stato fatto un passo in avanti nel disegno di legge sul Welfare che introduce il «reddito di discontinuità», un’altra formulazione di un Welfare a pezzi. Il problema è che, per ora, riguarda solo il settore dello spettacolo mentre andrebbe esteso ai lavoratori culturali che hanno gli stessi problemi.

L’esigenza di una nuova politica industriale per il lavoro culturale si pone anche nell’editoria cooperativa di cui fa parte Il Manifesto. «Siamo andati avanti con una misura emergenziale come il rinvio del taglio del fondo per l’editoria – afferma Barni – Come in altri settori anche nel giornalismo la cooperazione è un presidio di conoscenza valido per superare le fratture educative. La garanzia del pluralismo e dell’indipendenza garantisce l’informazione in tempi di fake news. È in virtù di questo ruolo che va ripensato anche il sostegno pubblico all’editoria. L’informazione non va lasciata solo al mercato».

 

 

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