Vitaly Mansky: «Esprimere il proprio dissenso sulla guerra adesso non basta più»

«È incredibile come quest’uomo venuto fuori dal nulla, messo in quella posizione da Yeltsin, in breve tempo abbia perso il contatto con la realtà. Si considera una sorta di divinità» afferma Vitaly Mansky, raggiunto in una videochiamata su zoom. Il regista ha d’altronde osservato l’ascesa di Putin da vicino, l’ha persino filmata quando era a capo della sezione documentari del primo canale pubblico russo. Quelle immagini, potenti e premonitorie per molti aspetti, confluirono allora in una trilogia di film su Gorbaciov, Yeltsin e Putin. Nel 2018 Mansky le ha nuovamente montate e commentate nel lavoro Putin’s witnesses (I testimoni di Putin). Ma il regista è coinvolto da vicino in questa guerra perché rappresenta personalmente il groviglio di provenienze, scelte linguistiche e di vita che rendono la situazione in Ucraina così complessa, come si vede nel film Close relations (2017). Nato nel 1963 a Leopoli, l’invasione della Crimea lo ha spinto ad abbandonare Mosca – città in cui viveva da diverso tempo – in favore di Riga, dove ha trasferito anche il festival di documentari da lui diretto, l’Artdoc fest. I suoi lavori, di cui molti disponibili sulla piattaforma dafilms.com, rappresentano un formidabile strumento di conoscenza e riflessione sulla società russa degli ultimi trent’anni.

L’inizio del conflitto in Ucraina nel 2014 coincide con il suo abbandono della Russia. Cosa l’ha spinta ad andare via?

In quel momento ho capito che gli eventi che stiamo vivendo oggi erano inevitabili, anche se non era ancora chiaro quale forma avrebbero preso. La ragione che ha determinato la mia partenza è stata il completo disaccordo nei confronti delle politiche del Cremlino, ma ancor di più il supporto della grande maggioranza della popolazione russa. Ho percepito un ambiente ostile, sintonizzato su idee opposte alle mie, ed è soprattutto per questo che io e mia moglie abbiamo preso la decisione di andarcene. Non siamo fuggiti, saremmo potuti rimanere in Russia nel 2014, ma quando camminavamo per le strade di Mosca e vedevamo le facce allegre delle persone – e non parlo di individui isolati ma degli intellettuali, di persone pensanti – ci sentivamo degli stranieri a casa.

Si aspettava questo tipo di intervento militare?

No, me l’ero immaginato diversamente. Credevo che il regime di Putin sarebbe stato più sofisticato e contemporaneo. Pensavo ad una lenta avanzata nel territorio, pensavo soprattutto che la «russificazione» sarebbe arrivata prima dei carri armati, non il contrario. Infine, non mi sarei mai aspettato che nel ventunesimo secolo fosse possibile una guerra medievale di questo tipo.

Attualmente in Russia c’è un’opposizione e molti stanno fuggendo, ma l’opinione pubblica sembra essere ancora con Putin e con la guerra.

Credo che la maggioranza della popolazione approvi tutto ciò e loro sono responsabili delle conseguenze di questa decisione. Alcune figure chiave della scena pubblica e artistica hanno abbandonato il Paese ma il numero delle persone che sta fuggendo non è così alto, per lo più ognuno sta continuando ad occupare il proprio posto. È vero che molti hanno apertamente espresso il proprio dissenso nei confronti della guerra, ma questo ora non è abbastanza. Se mi chiedi cosa dovrebbero fare secondo me: resistenza civile e sabotaggio. Ogni singola persona dovrebbe smettere di svolgere ogni attività professionale su tutto il territorio dell’aggressore, i registi dovrebbero smettere di fare film, gli insegnanti smettere di insegnare, e così via, in modo da fermare l’economia e spezzare il controllo di Putin.

Nel suo film «Putin’s witnesses» vediamo che, una volta eletto, il Presidente ha restaurato parte della mitologia sovietica. Che ruolo ha giocato?

Non si tratta di restaurazione della mitologia sovietica ma piuttosto di un utilizzo che Putin ne ha fatto. È come quando Hitler strumentalizzò la sconfitta della Germania nella prima guerra mondiale per far crescere il sentimento di ingiustizia nella popolazione e far scoppiare poi la seconda. Putin ha manipolato l’opinione pubblica rispetto alla caduta dell’Unione sovietica, ha convinto le persone che l’indipendenza della Russia e dei Paesi dell’est Europa è una sconfitta che i russi dovrebbero vivere come un’umiliazione. È questo sentimento che ha nutrito la guerra attuale. Prendiamo ad esempio una donna che vive in un paesino isolato della Siberia. Eventi come l’indipendenza ucraina o la rottura del Patto di Varsavia avrebbero ben poca influenza sulla sua vita se non fosse che Vladimir Putin è riuscito a convincerla che questi avvenimenti sono il suo dramma personale, tanto che lei è persino felice di spedire il proprio figlio al fronte.

Molte istituzioni culturali in Europa stanno cancellando i film russi dalle programmazioni. In quanto direttore di festival e regista, cosa ne pensa?

Credo sia una tendenza pericolosa quella di boicottare basandosi solamente sul principio della nazionalità. Ho immediatamente scritto ai miei colleghi ucraini chiedendo loro: cosa intendete, giuridicamente ed eticamente, per film russi? Prendi me ad esempio: non sono russo etnicamente parlando. Sono nato in Ucraina, ho vissuto molti anni in Russia e ho origini polacche, lituane ad ebree. I film che faccio si oppongono fortemente a ciò che lo Stato russo rappresenta. Io sarei quindi un regista russo? Alexei Navalny, dal sangue russo, è ora in prigione anche per aver girato dei film come Putin’s Palace. Consideriamo anche lui un regista russo da mettere al bando? Credo che dobbiamo prima rispondere a queste domande e poi parlare di boicottaggio. All’Artdoc festival abbiamo deciso di non programmare film che sono stati sovvenzionati, dal 2014 in poi, dal Ministero della Cultura di Mosca, dalla tv statale o da gruppi come Gazprom. Una scelta che ha portato alla cancellazione di due lavori quest’anno.

Qual è la situazione attuale nelle Repubbliche baltiche? C’è chi teme che Putin possa spingersi fin lì, sono preoccupazioni fondate secondo lei?

Considero questa minaccia realistica perché secondo Putin, tutti coloro che parlano la lingua russa sono cittadini di un virtuale «mondo russo» che nella sua mente può diventare reale in qualsiasi momento. Le Repubbliche baltiche sono un territorio molto attraente, in Lettonia il 40% della popolazione parla russo e molti hanno anche un passaporto della Federazione russa. Dopo la decisione di invadere l’Ucraina, non vedo perché non possa essere presa anche quella di invadere la Lettonia.

I suoi parenti in Ucraina sono al sicuro?

Sono preoccupato soprattutto per mia madre, lei è ad Odessa, una città che si sta preparando all’assalto. Sto cercando in tutti i modi di evacuarla, è una donna di una certa età per cui non può lasciare il Paese da sola. I miei colleghi polacchi mi stanno proponendo delle soluzioni per tentare di andarla a prendere al confine.

Quando pensa che finirà tutto questo?

Purtroppo gli scenari non sono positivi. Ma c’è una piccola possibilità che vedremo la fine dei regimi di Putin e di Lukashenko, e sulle rovine di questo impero forse nasceranno nuove società democratiche.

Dovrebbe presentare alcuni film a Mosca ad aprile, ci andrà?

Se lo Stato non interferirà, andrò e parlerò francamente al pubblico come ho fatto con te.

 

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