Kaputt?

Kaputt?

Nel suo decimo anniversario, L’Intellettuale Dissidente, così come lo avete conosciuto in questi lunghissimi, straordinari, folli, anni, non ci sarà più. Saremo sempre noi, con la differenza che abbiamo imparato a stare al mondo. E adess…

E’ arrivato quel momento. Quello in cui affili la lama, per dieci anni, poi la conficchi nelle viscere del nemico, la tiri fuori, sporca di sangue, credi di averlo ucciso, mentre ti guarda con gli occhi spalancati. Improvvisamente hai paura. Perché sai che alla fine, vivo o morto, è lui che ucciderà te. E allora pulisci la lama, per giorni, la affili di nuovo, in attesa di quel momento, quel momento in cui te la conficcherai in pancia. Toglierti la vita, prima che qualcuno te la tolga. I giapponesi lo chiamano seppuku o harakiri. È un rito antico, folle, estremo, esaltante. Morire per rinascere, altrove. Come il martirio per i primi cristiani, come il martirio dei musulmani. Coloro che hanno la consapevolezza di vivere un esilio terrestre, perché tutto ciò che conta in fondo è nel mondo celeste. Di passaggio, in questa vita, proiettati nell’infinito. E il finale, che non è la fine: è una scarica di dolore e di potenza.

E poi ci sono gli artisti, gli eccentrici, gli sconfitti, i maledetti, i diseredati, anche loro, di un’altra epoca, meno antica, che con un colpo di pistola alla testa si sono levati di torno. C’è la frustrazione, alla radice, c’è la radicalità nella visione, dunque l’eternità, seppur in questo mondo. Come Guido Morselli –  autore che ho conosciuto grazie a Davide Brullo -, sparatosi in una notte del 1973. È in bagno, seduto su una sedia a sdraio. Impugna una Browning militare, la celebre «ragazza dall’occhio nero» nominata nei suoi romanzi, allora tutti inediti. Si toglie la vita, Morselli, perché è uno scrittore frustrato, senza editori, ed è stanco di sentirsi ripetere «tu sei uno scrittore postumo».

Quel ragazzo di 19 anni e di grande talento, gIANMARIA, il tema del “suicidio” lo ha portato sul palco nell’ultimissima edizione di X Factor. A dimostrazione che quel gesto non è più un atto (spirituale, artistico), ma un’azione miserabile (del sottoproletariato maschile, statistiche alla mano). Segno dei tempi. Non ce lo possiamo più permettere, noi. Né come atto, tantomeno come azione. Non apparteniamo più al mondo antico, non facciamo parte del sottoproletariato.

Dunque possiamo solo vivere di metafore e di miti. Al massimo, morire ogni notte, e risvegliarci ogni giorno. Oppure, non rimanere prigionieri delle nostre idee e delle nostre vite, ora delle nostre creature.

Possiamo soltanto accettare la nostra stanchezza, credere in qualcosa di nuovo, e rigenerarci. Perché la giovinezza in fondo è una condizione dello spirito, prima ancora di essere un fatto anagrafico. È arrivato quel momento. Ora. Sono giorni che provo a pubblicare questo articolo, l’ultimo articolo, su queste colonne digitali. Nel suo decimo anniversario, L’Intellettuale Dissidente, così come lo avete conosciuto in questi lunghissimi, straordinari, pazzi, anni, non ci sarà più. O meglio rimarrà ancora per poco. Nel senso che il sito non verrà più aggiornato, ma rimarrà consultabile per qualche mese (poi non rinnoveremo il dominio). Nel senso che diventerà qualcos’altro, all’alba dei nostri trent’anni. Miei e di Lorenzo Vitelli, con il quale fondammo il blog, e che oggi per forza di cose dedica le sue intere giornate a fare l’editore, per GOG, la casa editrice che sempre insieme, ormai quattro anni fa, abbiamo fondato. Mentre con Davide Brullo, che è stato direttore editoriale in questo potente 2021, nonché grande fonte di ispirazione e artefice, stiamo ragionando su qualcosa di più grande. Dio solo lo sa se ci riusciremo. E il tempo, se sarà galantuomo. I nostri collaboratori storici così come i membri del Club dei 500 erano già al corrente di questa decisione, e già si sono attivati per disegnare con noi il futuro, mentre i più attenti lettori, tanti, tantissimi, avevano già percepito nell’aria che qualcosa stava succedendo.

La verità è che anagraficamente, fisiologicamente, storicamente si è concluso un ciclo di vita. Per gli Uomini e i loro punti di riferimento, e dunque anche per noi e per L’Intellettuale Dissidente. L’altra verità, è che L’Intellettuale Dissidente, in questi dieci anni e ormai la sua storia la conoscete bene, ha compiuto la sua missione. Nel bene o nel male ha segnato un’intera generazione, ma soprattutto è stato un incubatore, una scuola di vita, un romanzo di formazione, un caravanserraglio di persone e di idee, il regno dove l’impossibile è diventato possibile, il punto di irradiazione di realtà e iniziative editoriali e culturali ormai consolidate. Adesso è impossibile citare una per una tutte le persone che in questi dieci anni hanno reso possibile questa Avventura – non credo esista parola migliore per definirla. È stato tutto perfetto, l’unico rimpianto è di non essere riuscito a pagare tutti coloro che hanno contribuito con la scrittura e non solo. Spero almeno di averli ripagati con un bel ricordo, un aneddoto insieme, un beau geste, una parola, un momento di conforto, di confronto, di crescita, di affetto, di amicizia sincera, di vita. La porta del mio cuore rimarrà sempre aperta.

Sappiate però che non vi liberete cosi facilmente di noi: L’Intellettuale Dissidente è morto, viva L’Intellettuale Dissidente. All’alba dei nostri trent’anni, al decimo anniversario di questa rivista folle, vogliamo in realtà dare vita a una testata ancora più autorevole, perfettamente riconoscibile, con un pubblico molto preciso, in grado di inventare una nuova grammatica, delle nuove parole di ordine e di disordine, un nuovo linguaggio. È terminata un’epoca, noi siamo gli ultimi Uomini, entriamo nel futuro, e per farlo, dobbiamo tornare a essere l’avanguardia che siamo stati quando abbiamo dato vita a questo movimento di idee e di persone. Siamo cresciuti, insieme ai nostri compagni di avventura, amici e lettori, un privilegio raro, e adesso vogliamo continuare a salire sull’alto monte nietzschiano. “Erano gradini per me, li ho saliti, a tal fine ho dovuto oltrepassarli. Ma quelli credevano che volessi riposarmi su di loro”. Scriveva Nietzsche, appunto.

Dissipatio” è il nome che abbiamo scelto per questa nuova cellula mediatica che si muoverà nello spaziotempo attraverso la produzione di approfondimenti, analisi e scenari strettamente collegati all’attualità quanto alle meccaniche dello spirito della nostra epoca. È un nome che dovreste conoscere abbastanza bene: o avete letto il romanzo visionario, psichedelico e profetico di Guido Morselli, oppure vi siete goduti il nostro bollettino settimanale per un intero anno. Dissipatio infatti è l’esito di un ragionamento decennale compiuto con “L’Intellettuale Dissidente”. Dissipatio è l’evoluzione naturale dell’Intellettuale DissidenteDissipatio è la fine e il principio. Non vi diciamo di più, solo che arriverà molto presto. E che potete già iniziare a seguire su FacebookInstagram, Twitter, e mettere il sito già tra i vostri preferiti. Vi diamo un altro indizio di quello che sarà o meglio che vuole essere:

se Lawrence d’Arabia, agente segreto e poeta, fosse vivo, sarebbe il direttore indiscusso delle operazioni. E non perché inglese, sia chiaro, ma perché è Lawrence d’Arabia. Dissipatio sarà un prodotto nuovo, nel senso che ripartirà da zero. Zero “click”, zero “follower”. Non abbiamo paura di contarci, anzi vogliamo contarci. Dissipatio sarà qualcosa di esclusivo, con contenuti esclusivi, dedicato a lettori anomali, che non credono all’informazione mainstream e diffidano della controinformazione speculativa, alla moda. Siamo sempre noi, con la differenza che abbiamo imparato a stare al mondo. E adesso, il mondo, con un po’ di presunzione, ve lo racconteremo come Dio comanda. Noblesse oblige.