Via Fani, la memoria negata

Storia Raffaele Iozzino, Oreste Leonardi, Domenico Ricci, Giulio Rivera, Francesco Zizzi: ecco perché è un dovere onorarli

 

Morirono in cinque, erano gli agenti della scorta di Aldo Moro. Ma in pochi li ricordano

di Claudio Magris

In questi giorni è stato ricordato uno dei più tragici e torbidi cancri della nostra Storia recente — il rapimento di Moro, la sua prigione, le sue lettere, i sussurri le grida il parlottare delle trattative, le ricerche per trovarlo o non trovarlo, lo sdegno e l’imperativo di agire di quelli che Sciascia chiamava uomini veri e il mellifluo cinismo dei tanti che egli chiamava quaquaraquà, sempre protesi a rinviare ogni decisione e a non decidere, piccoli Amleti di sagrestia. Infine l’assassinio. Ma cinquantacinque giorni prima di quest’ultimo c’era stata un’altra mattanza, che si tende, indecentemente, a ricordare poco. Cinque agenti di pubblica sicurezza massacrati come cani, i cui nomi dovrebbero esserci cari e ben conosciuti più di quelli che su quell’eccidio, su quella macelleria politica discutevano su cosa fare e su cosa politicamente trarne.

Ricordo il preciso momento in cui ho avuto notizia dell’eccidio di via Fani. Ero all’università di Torino, dove insegnavo ed ero sceso alla presidenza, al piano terra, per alcune formalità burocratiche, dove ho incontrato Franco Venturi — il grande storico e grande comandante partigiano azionista, Comandante Nada — arrivato anche lui in quell’istante. È stato il bidello a dircelo, l’aveva appena sentito alla tv. «Vorrà dire che dovremo tornare in montagna», disse Venturi, pronto a riprendere il fucile contro le cosiddette Brigate rosse, per le quali Massimo Mila — anch’egli partigiano, lui comunista, in un celebre articolo avrebbe invocato la pena di morte. Cinque uomini, caduti in un bestiale assassinio, frettolosamente e distrattamente menzionati in ogni commemorazione di quel plurimo delitto e dimenticati o messi nel ripostiglio più appartato della memoria.

La loro morte, peraltro, era e doveva essere più che sufficiente a impedire ogni ipotesi, velleità o intrallazzo di trattativa. Quando Moro scriveva le sue lettere, i brigatisti che lo tenevano in loro balia non erano soltanto i suoi rapitori, sequestratori, carcerieri, ma erano già gli assassini di cinque persone, autori non solo e non tanto di un sequestro, ma di un eccidio su cui non si poteva sorvolare quasi fosse un eccesso di velocità o una sosta vietata. Ma, come dice una famosa canzone di Brecht nell’Opera da tre soldi, nella vita alcuni stanno nella luce e alcuni stanno al buio e noi vediamo solo chi sta nella luce e non chi sta al buio e del quale, anche se viene ucciso, ci accorgiamo sbadatamente. Quella tiepidezza nei riguardi della strage dei cinque agenti è una delle pagine più ripugnanti di quella vicenda. La Scrittura parla della pietra rifiutata dai costruttori, di chi è ignorato e respinto da tutti e del quale però il Signore, sta scritto, farà il muro maestro della sua casa. Ma pochi frequentatori di sagrestie conoscono queste parole, questi sentimenti, questi ovvi doveri. Neppure la figlia di Moro, che più tardi nel buon esercizio di una delle opere di misericordia prescritte dal catechismo mandò, un Natale, dei panettoni agli uccisori di suo padre in carcere, pensò — ebbi occasione di chiederglielo pubblicamente — di mandare qualche panettone pure alle vedove dei cinque trucidati, donne che vivevano con la pensione reversibile di agenti di pubblica sicurezza e per le quali un panettone poteva essere pure un piccolo bene non sempre accessibile.

Uomini uccisi in un bestiale assassinio, distrattamente menzionati nelle commemorazioni

Le lettere di Moro erano irricevibili, perché scritte sotto costrizione, come un matrimonio in cui si dice sì, davanti al sacerdote o all’ufficiale di Stato Civile, con una pistola puntata alla schiena. Matrimonio nullo, inesistente, carta straccia da buttare nel cestino. Se si è innamorati, si può — si deve — ritornare in Chiesa o in Municipio, senza pistole sulla schiena. Pertini, baluardo in quel momento degli elementari valori umani, politici e civili, per il quale i brigatisti rossi erano «pezzenti che disonorano un colore per noi sacro», disse che, se egli fosse stato rapito — «cosa che non succederà» — ogni sua parola, detta o scritta, avrebbe dovuto essere lasciata cadere nel cestino, senza essere presa in alcuna considerazione.

Certo, come diceva Don Abbondio, il coraggio uno non se lo può dare. Ma anche noi che siamo Don Abbondio possiamo e quindi dobbiamo ricordare quei cinque nostri fratelli: Raffaele Iozzino, Oreste Leonardi, Domenico Ricci, Giulio Rivera, Francesco Zizzi. I nomi di tutti quegli altri — intermediari, negoziatori, broker, mezzani, sensali che in quei giorni trattavano e trafficavano, non è sempre chiaro se per la vita o per la morte di Moro — possiamo lasciarli cadere nel cassonetto dei rifiuti.

 

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