Le porte chiuse dei nostri teatri vorrebbero, nel pensiero incrostato, imprigionare l’espressione artistica che dà voce, respiro e forma al complicato marchingegno umano. Narrazione e fabula e conforto e divertimento e studio e altro – da sempre accanto agli uomini – ora si autoescludono dalla polis, dalla società, perché non hanno più una casetta. “Non ho il teatro non posso fare il teatro, uffa”.

Eduardo De Filippo, quando veniva chiamato al telefono e sentiva: “È la televisione”, rispondeva: “Le passo il frigorifero”. Fare il teatro non è essere il Teatro… L’acqua fluisce, non si ferma, deve dare da bere a tutti… Il teatro non è la vasca che lo contiene, non è un luogo, ma è anima e metodo. E gli attori, gli autori, i registi, i drammaturghi ne sono gli autori e gli esecutori: il metodo che allena a ragionare, pensare, riflettere sulle cose, metaforizzare le ombre, vedere in trasparenza.

Storie familiari si vestono di abiti impossibili e si muovono in scenografie che riproducono luoghi riconoscibili: nascondono la domanda dell’Uomo. Solo la sua rappresentazione mette ordine nel nostro caos interiore e dà conforto. Razionale e immaginario. Mondo interiore spirituale e mondo materiale. Visibile e invisibile. Il Teatro è questo lavorio, questa continua dinamica a tenere in gioco l’ombra delle cose, la profondità, lo spessore: vi sembra materia inutile per formare la coscienza che, come scriveva il cardinale Martini, “è un muscolo che va allenato”? Vi sembra che una società possa rinunciare a questo, forse per un anno, solo perché non ha la casa?

Siamo migliaia, vogliamo essere contemporanei del nostro futuro, allora io dico: “Al lavoro!”. Fuori tutti dal guado e aiutiamo a costruire una società con spazi intellettuali più ampi, cominciando dalla Scuola. Perché non aprire i teatri a settembre al mattino per aiutare la scuola ad attuare il distanziamento? Classi di 30-50 ragazzi in platee da 500 posti: va bene! Chiedete in ogni Comune di noi. Ci siamo. Chiedeteci di affiancare i maestri e i professori in materie che noi studiamo ogni giorno: italiano, letteratura, poesia, analisi del testo, greco, latino, messa in scena (ah, come aiuta i ragazzi !). Chiedeteci di leggere, raccontare, recitare. Ci siamo.

Lasciamo i genitori tranquilli al lavoro e facciamo che i teatri diventino luoghi familiari per i ragazzi. Non per lo “spettacolo”, che è rito, impegno complesso, opera compiuta, a cui bisogna prepararsi (e che tornerà). Non per esibirci, non per mostrare i nostri talenti e le nostre esercitazioni a pochi sparuti spettatori, non per strabiliare con le nostre performance che sanino i nostri ego sofferenti, ma per contribuire a una rinascita intellettuale, culturale ed economica del nostro Paese. Il nostro aiuto aiuta anche noi. Restituisce un senso al nostro silenzio e ci permette di manifestare la nostra funzione civile, che non è solo e soltanto essere tanto bravi al punto da commuovere o stupire con corpi stressati dalla fatica, dal sudore, dall’esperienza agonica che rende incandescente la comunicazione “dal vivo”, ma è anche studio, analisi, intelligenza e scelta del punto di vista.

Ci hanno relegato in meravigliosi teatri e ci hanno detto: buoni lì, mentre noi pensiamo all’Italia . È stato un errore.

Il mondo è uscito dai suoi cardini e sta a noi rimetterlo in (altro) sesto, insegnando ai cittadini il rispetto per il tempo della riflessione sulle cose, non delle cose; il tempo, che in qualche luogo nel fondo di noi, laggiù tra il cuore e il respiro, trasforma un fatto in un’esperienza. Quella è la sede dell’umano sentire, che ci fa piangere sul dolore di un altro, che ci fa indignare su un gesto riprovevole di un altro, che ci rende unici e resistenti al bombardamento mediatico, al frastuono dei pixel, che ci chiede tempo… Quell’umano sentire che, nel nostro mondo futuro, sarebbe bello fosse insegnato in prima elementare.