Vi prego, fermate l’ippocervo.

LA LEGGE ELETTORALE
CHI deciderà i prossimi governi? Il caso. Giacché per governare servono i voti, e per contare i voti serve una legge elettorale. In Italia c’è, anzi ce ne sono due. A PAGINA 37 CHI deciderà i prossimi governi? Il caso. Giacché per governare servono i voti, e per contare i voti serve una legge elettorale. In Italia c’è, anzi ce ne sono due; ma la loro somma genera una riffa, una lotteria di Carnevale. Abbiamo in circolo due leggi nate casualmente, senza un progetto, senza un’intenzione; finiranno per generare esiti casuali. È nell’origine, difatti, l’essenza delle cose. In questa vicenda però l’origine sta nella sentenza, non nella legge. Risiede nella doppia decisione con cui la Consulta prese a morsi prima il Porcellum del Senato (sentenza n.
1 del 2014), poi l’Italicum della Camera (sentenza n. 35 del 2017). Sicché adesso ne restano due moncherini, dato che la Corte costituzionale non ha ago e filo per cucire, ha in mano soltanto un paio di forbici. Da qui l’esigenza di metterci rimedio. Mattarella lo ha ricordato a più riprese (l’ultima volta un mese fa, alla cerimonia del Ventaglio), anche perché il sistema vigente è disarmonico, oltre che accidentale. In sintesi: alla Camera capilista bloccati, soglia di sbarramento al 3%, nessun incentivo per le coalizioni, premio di maggioranza al partito che superi il 40% dei consensi; al Senato niente premio, niente capilista, voto di preferenza, soglie d’accesso a scalare (8% se corri da solo, 3% se invece ti coalizzi). Insomma, un matrimonio fra una cavalla e un cervo. Ma a quanto pare le forze politiche si sono arrese all’ippocervo, o magari pensano d’addomesticarlo, d’usarlo come un taxi per tornare in Parlamento. Il 6 settembre la Camera riprenderà l’esame della legge elettorale, però intanto non si muove foglia; l’unica trattativa gira attorno alle elezioni siciliane, dove Alfano sta offrendo i propri voti in cambio dello status quo, senza introdurre soglie di sbarramento impervie per i piccoli partiti. E gli altri? Nicchiano, traccheggiano, ma infine annuiscono. Oppure pongono condizioni irrealizzabili, come l’accordo universale in Parlamento (Renzi dixit) per battezzare la riforma. È l’eterno gioco del cerino, ma in questo caso rischiamo di bruciarci tutti, noi e loro.
C’è modo per uscire dalle secche? Non certo auspicando che la prossima legge elettorale neutralizzi le «deficienze» della Costituzione, cioè che sia una legge incostituzionale (così Galli della Loggia sul Corriere, 21 agosto). Né fantasticando sui massimi sistemi, sul maggioritario all’inglese o alla francese, sul proporzionale alla tedesca. Non è aria, non è stagione. Però il tempo stringe: o il mese prossimo i partiti trovano l’accordo o non se ne parla più, perché in autunno la manovra economica bloccherà i lavori delle Camere. E occorre un’intesa quantomeno per rendere coerenti le procedure elettorali di Montecitorio e di Palazzo Madama, per espellervi l’alea, il capriccio della sorte cui si è rassegnata perfino la Consulta, affidandosi al sorteggio per decidere il collegio dei plurieletti. Se i leader politici non sanno escogitare soluzioni, dovrà farlo qualcun altro in loro vece.
Ecco allora la proposta: che sia il governo Gentiloni a giustiziare l’ippocervo. Non però con un decreto, la cui adozione in materia elettorale viene proibita espressamente (articolo 15 della legge n. 400 del 1988). Piuttosto con un disegno di legge, maggiormente rispettoso della sovranità del Parlamento. E con il minimo tasso di creatività, d’innovazione rispetto all’esistente, sempre per non invadere l’autonomia parlamentare. Dunque scegliendo il Consultellum del Senato o quello della Camera, per esportarlo poi anche sull’altra assemblea legislativa.
Ma la scelta è a rime obbligate: vince il Senato. Perché il premio di maggioranza della Camera non è replicabile al Senato senza rischiare risultati schizofrenici, con un vincitore di qua, un vincitore di là. Perché cancellando la legge elettorale della Camera ci sbarazzeremmo altresì dei capilista bloccati, un sopruso ai danni del popolo votante. E perché al Senato le soglie d’accesso sono più flessibili, e al contempo più efficaci contro la polverizzazione della rappresentanza. Unico correttivo: la ridefinizione dei collegi (troppo grandi i 20 del Senato). Dopo di che potremo votare, anziché tirare in aria i dadi.
michele.ainis@uniroma3.it
La Repubblica