Una ferita di Stato che resta viva

di Luigi Manconi
Nella vita degli individui, così come in quella delle organizzazioni sociali, accadono eventi che rappresentano una sorta di disvelamento. Una presa di coscienza o un lampo di lucidità che rivelano crudamente qualcosa che risultava occultato o rimosso. I fatti del G8 di Genova del 2001, per molti versi, hanno rappresentato questo: la scoperta del lato oscuro degli apparati dello Stato democratico. Esso, lo Stato democratico, in alcune circostanze, in alcuni settori e in alcuni uomini (non pochi), è capace di abusare della forza legittima di cui dispone, e di esercitarsi in violenze, sevizie e torture. Non che non lo si sapesse, ma osservarlo lì, nelle strade di Genova e immaginarlo all’interno di una caserma e di una scuola, e poi verificarlo nelle centinaia e centinaia di testimonianze, cambia lo sguardo e il punto di vista. E determina un processo emotivo e mentale che possiamo chiamare “perdita dell’innocenza”.
Ovvero, la scoperta che lo Stato può non essere un sistema di tutele sotto cui trovare riparo, bensì una potenza ostile che insidia l’incolumità del cittadino. Certo, non erano tutti “innocenti” quanti manifestavano a Genova (non lo erano i black bloc e non solo loro), ma in quei cortei erano presenti migliaia di persone per bene e di adolescenti, dai 15 anni in su, mossi esclusivamente da ciò che muove le giovani generazioni di tutti i luoghi e di tutti i tempi: un’irresistibile voglia di cambiare il mondo. Quale brutale lezione di “educazione civica” fu, per loro, l’impatto con uno Stato, rappresentato dal poliziotto e dal carabiniere che impugnavano il manganello o il calcio del fucile? Qualcosa del genere accade periodicamente nella storia ed è accaduto, in una misura ancora più crudele, in occasione della strage del 12 dicembre 1969 a Milano. Quando altri giovani realizzarono che nel conflitto contro la vecchia società qualcuno (dentro gli apparati dello Stato) aveva fatto ricorso a un’arma “non convenzionale”, micidiale e devastante. Anche allora non tutti si era innocenti e a subire quel trauma non fu “un’intera generazione” come retoricamente si sente dire, ma settori importanti di essa, capaci di influenzare ampie aree della società. La frattura tra parte delle giovani generazioni e le istituzioni comincia a rivelarsi proprio allora. Quando, cioè, l’adolescente prende coscienza del mondo, ne misura il grado di ospitalità o l’asprezza del rifiuto, ne saggia la capacità di integrazione o ne patisce la violenza dell’esclusione. Basta questo a farci intendere quanto delicato sia il ruolo delle forze di polizia in uno Stato democratico. Non solo, l’esito giudiziario delle giornate di Genova fu assai deludente. La Procura non fu in grado di perseguire le violenze “di massa” — a danno di “un’infinità di persone incolpevoli” secondo l’attuale capo della polizia Franco Gabrielli — e il processo per gli abusi all’interno della scuola Diaz portò a condanne lievi, tali da non compromettere le carriere dei funzionari responsabili; e quello per i fatti della caserma di Bolzaneto si concluse con condanne leggere, motivate dall’assenza, nel nostro ordinamento, di una norma specifica sul reato di tortura. E tutto questo non ha potuto cancellare l’ombra di quella pratica terribile che si indovina tra le pieghe dell’attività delle forze di polizia, quando si sottraggono al controllo dell’opinione pubblica e delle istituzioni democratiche: come confermano troppi nomi di vittime (Aldrovandi, Rasman, Uva, Magherini…).
Poi, nel 2017, lo stesso Gabrielli, intervistato da Carlo Bonini, affermò che la gestione dell’ordine pubblico a Genova fu «una catastrofe» e aggiunse che «se tutto questo, ancora oggi, è motivo di dolore, rancore e diffidenza» significa che «la riflessione non è stata sufficiente». Nonostante che, anche suoi predecessori, come Antonio Manganelli e Alessandro Pansa, furono capaci di pronunciare parole di scusa a proposito di altri casi di abusi. Tutto questo è ancora drammaticamente poco. Il processo di democratizzazione delle forze di polizia è lento, lentissimo, soggetto ad arretramenti e totalmente ignorato dalla classe politica, afflitta da un antico complesso di inferiorità. E il tempo, come in tutte le grandi vicende di trasformazione, costituisce un fattore determinante. Come dimenticare che ci sono voluti dieci anni perché venissero individuati i responsabili della morte di Stefano Cucchi?
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