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PAOLA MASTROCOLA E LUCA RICOLFI DENUNCIANO IL DANNO PROCURATO DA UN insegnamento PROGRESSISTA CHE PRODUCE DISUGUAGLIANZE

Paola Mastrocola

Per molto tempo ho pensato che i miei allievi in difficoltà non studiassero abbastanza, che avessero sempre studiato troppo poco. E che fosse per mancanza d’interesse, inerzia, indolenza, o scarsa capacità. La sostanza era vera (studiavano poco), ma la causa era sbagliata: studiavano poco perché non avevano le basi. Eccole di nuovo lì, le famigerate basi! Si studia quando si vede che ce la si fa; se invece lo studio non poggia su niente, passa la voglia, viene un senso di frustrazione, di vanità del tutto. Voglio dire che a quel punto si può anche fi nire con il lasciar perdere, abbandonarsi alla corrente e farsi portare, sperando nella promozione che, visto che il successo formativo è un diritto, prima o poi arriverà.
Insomma, i miei allievi non studiavano perché otto anni di scuola non erano bastati a farli poggiare su qualche base. Oppure era colpa mia: esigevo troppo, o forse quel che esigevo era sbagliato, le capacità che io richiedevo non erano più quelle che si dovevano chiedere. Ma poi mi dicevo: non devo chiedere di saper parlare e scrivere? Inoltre, questi miei allievi hanno scelto un liceo in cui c’è ancora il latino, come si fa a fare latino se non si sa trovare un soggetto, se non si distingue un’apposizione? Infatti andavano male anche in latino. Per tutti e cinque gli anni, era certo che il latino se lo trascinavano a settembre, andando avanti tra debiti e recuperi, arrancando, barcamenandosi come potevano.
Parlo di un terzo dei miei studenti, ogni anno, negli ultimi quindici anni. Una decina di ragazzi per classe, o poco meno. E a volte un po’ di più.
E gli altri? Quel mio fermarmi con i programmi, e tornare indietro a recuperare i più deboli, non sapevo se era giusto, e non sapevo nemmeno a chi giovava. Non ci riuscivo comunque, ad aiutare i ragazzi in difficoltà: non mi fermavo abbastanza con i programmi. Avrei dovuto dedicarmi a loro di più, uno per uno, per avere qualche speranza di farcela. A volte pensavo che se me li fossi presi, uno per uno, al pomeriggio, magari in casa mia, sarei riuscita a tirarli fuori. Avevano bisogno di un aiuto costante, quotidiano, individuale. Avrei dovuto diventare una specie di istitutore privato per ognuno di loro. Una follia. Un’utopia?
Volevo anche andare avanti, fare cose più difficili, svolgere i programmi che da sempre erano quelli previsti per il biennio di un liceo. Pensavo a quelli bravi, già capaci, che io lasciavo indietro, a rifare cose trite e ritrite, scontate, che avevano già fatto negli anni precedenti. Li lasciavo ad annoiarsi, mi chiedevo che ne sarebbe stato di loro. Potevano perdersi, per noia. Era quello che temevo. Nessuno parla mai dell’abbandono scolastico per noia. Bisognerebbe parlarne molto, invece. Nessuno ne parla perché riguarda i bravi, e i bravi non sono oggetto delle premure progressiste. Non sono riconosciuti come deboli, quindi non meritano protezione. Bisognerebbe occuparsi molto anche di loro, invece, perché una società che si perde i migliori amputa il suo futuro.

Torniamo all’ora parenti, alla frase fatidica: «Suo figlio non ha le basi». A quel punto la madre e il padre mi guardavano disarmati:
«Cosa possiamo fare…».
«Non lo so», rispondevo.
«Dobbiamo farlo seguire da qualcuno?».
«Forse sì…».
È terribile. Io, l’insegnante del loro figlio, li autorizzavo a fare quella cosa ingiusta e sbagliata, di consegnarlo alle lezioni private.
Cos’altro potevo fare?
C’è un tempo giusto per imparare a leggere, a scrivere, a parlare. Un tempo per fare ortografi a, analisi logica, riassunti, parafrasi, temi. E loro quel tempo l’avevano “mancato”. Ora, per quanto noi facessimo, molte cose non erano recuperabili. Gli anni del liceo sarebbero stati anni di fatica e frustrazioni, a inseguire qualcosa che era ormai dietro di loro.
Era mancata, a quei ragazzi, la preparazione di base.
Ecco, torniamo alla parola chiave: preparazione.
Io non ho visto quasi mai, nei miei anni d’insegnamento, problemi economici, difficoltà dovute al censo, al ceto sociale, alto o basso. Ho visto differenze dovute alla preparazione.
Chi l’aveva, quella preparazione, andava avanti.
Chi non l’aveva remava per anni, e spesso cambiava scuola, o si fermava. Abbandonava.
Già. L’abbandono scolastico…
Dovevamo porci il problema, tanti anni fa. E oggi dovremmo più che mai, oggi che il disastro è sotto gli occhi di tutti, siamo agli ultimi posti nei test internazionali, i test INVALSI dell’estate 2021 registrano risultati disastrosi in matematica e italiano, e molti ragazzi non riescono a passare gli esami più difficili all’università e smettono di studiare, perché non sono attrezzati a farlo.

Che scuola gli abbiamo dato? E che scuola stiamo apparecchiando per le nuove generazioni? (…)
Oggi abbiamo solo due strade.
La prima è continuare a non vedere il danno prodotto e proseguire imperterriti sulla stessa linea, magari chiamando innovazione l’ulteriore abbassamento culturale dell’istruzione.
La seconda è riconoscere l’errore. E cercare di riscattarci, ripensando la scuola da zero e ricostruendola, pezzo per pezzo.
Ho come l’impressione che abbiamo già scelto.
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