Tutti i gradi di separazione di una coppia costretta a presentarsi unita al voto.

di Francesco Verderami

In principio Salvini era «il goleador», e si capiva come Berlusconi parlasse da presidente, allenatore e capitano della squadra di centrodestra. Poi il leader della Lega si è messo in testa — numeri alla mano — di prendersi la fascia di capitano, fare la formazione e persino ristrutturare il club. E lo scontro è diventato inevitabile. Sono tre anni che va avanti, e i gesti di pacificazione non sono stati che brevi intervalli dentro una polemica sconfinata spesso nel personale, se è vero che il capo del Carroccio non ha mai dimenticato l’epiteto di «ragazzotto» e che il Cavaliere non gli ha mai perdonato l’attacco sul Milan «ridotto al punto da far pena».

Nonostante la distanza e le differenze è assai probabile che i due saranno alleati l’anno prossimo, condannati a stare insieme più che per convergenza politica per calcolo elettorale: per offrire l’immagine di un’alleanza competitiva con il Pd e i Cinquestelle, ma anche per sfuggire all’accusa di «tradimento» che ricadrebbe su chi venisse additato come responsabile della rottura, e che pagherebbe dazio al cospetto dell’opinione pubblica. Per il resto nulla li tiene insieme e rispetto al passato lo scenario è radicalmente cambiato: se un tempo Forza Italia e Lega erano complementari, ora si contendono lo stesso (e più piccolo) bacino elettorale.

È in questa chiave che va interpretato il duello sulla leadership, utile a conquistare il maggior numero di consensi alle rispettive cause. Perciò la sfida si è rinnovata dai palchi di Fiuggi e di Pontida. A fronte del «primato» rivendicato da Berlusconi, in continuità con la tradizione del centrodestra, Salvini ha demandato «ai cittadini» la scelta: è stato un modo per sottolineare i nuovi rapporti di forza, e per confutare le analisi degli esperti che accreditano in prospettiva il Cavaliere di maggiori margini di recupero, capace quindi di emergere dalle urne come primo partito dell’alleanza.

Il terreno del duello rimane l’Europa, che evidenzia i gradi di separazione tra «alleati», consente loro di tenersi per il momento a distanza e mostra le divergenti strategie per accaparrarsi elettori. Si capisce allora perché Salvini abbia chiesto un chiarimento a Berlusconi sulla sua idea di Unione Europea, riproponendo il tema come una pre-condizione, come una pregiudiziale per siglare un nuovo patto. Ma la mossa rischia di avere meno presa sull’opinione pubblica rispetto al passato. E il Cavaliere — forte di un rinnovato endorsement del Ppe — ha avuto gioco facile nel ricordare che i populisti sono stati sempre sconfitti nel Vecchio Continente, e che solo sotto l’ombrello dei Popolari — con la sinistra in crisi — può essere garantita una vittoria elettorale.

Ed ecco il punto. Lo scontro sul primato nell’alleanza tiene lontano il confronto su un nodo che prima o poi dovrà essere sciolto. Perché non c’è dubbio che il centrodestra abbia le potenzialità per risultare primo alle elezioni, i sondaggi stanno a testimoniarlo. Scommettere sul risultato — come fanno tutti i dirigenti del rassemblement — è un’affermazione che cela però un’ambiguità. Perché il tema è se il centrodestra avrà poi una maggioranza nei due rami del Parlamento per formare il governo. E siccome in un sistema tripolare non c’è proiezione che accrediti questa prospettiva, in tal caso la coalizione mostrerebbe i propri limiti e si rivelerebbe «in-coalizzabile», incapace cioè — nella sua interezza — di garantirsi o di accettare l’appoggio di altri gruppi alle Camere. Sarebbe quello un altro bivio, anzi il vero bivio del centrodestra (come di un ipotetico centrosinistra). E dinnanzi a una simile evenienza ognuno sta disponendo i propri pezzi sulla scacchiera politica, mettendo in conto una separazione. Berlusconi si sta attrezzando, lo si è capito quando ha rivelato che — in caso di vittoria — farebbe al Quirinale il nome di Tajani, attuale presidente dell’Europarlamento, come presidente del Consiglio.

Il Cavaliere ha capito che il vento è cambiato, che potrebbe esser lui — se non il «prossimo premier», come gli ha augurato il segretario del Ppe — colui il quale darebbe le carte nella prossima legislatura. E non Renzi. Ma lo farebbe in nome dell’intera coalizione? Perché, su Tajani, la Meloni ieri e prima ancora Salvini fanno resistenza: quel nome evoca loro un’altra prospettiva. C’è una faglia in movimento sotto il centrodestra, dove si parla di leadership e non si dà risposta al vero quesito: dopo le elezioni gli alleati si divideranno o si fonderanno in un partito unico?