Tra le botteghe di quartiere che rischiano di più “Speriamo di poter riaprire”

di Maria Novella De Luca
ROMA — Alcuni sono rimasti sull’uscio. Con la saracinesca a metà. A guardare strade vuote dove a lungo sembrerà agosto o domenica. Le sedie fuori, i saluti a distanza, la città che diventa una piazza di paese, il silenzio che fa sentire passi e voci. Lo sgomento di chi sa che è giusto ma ha paura. «Che volete, questa bottega è la mia vita, sto qui dal 1954, l’ho ereditata da mio padre, ho tagliato barba e capelli a tre generazioni di ragazzi di Monteverde, ho il mio piccolo giro di clienti fissi, ma se adesso chiudo, il rischio è non riaprire più». Vincenzo De Leo, barbiere figlio di barbiere, ieri al negozio c’è andato lo stesso, dice che con le mani in mano lui non ci sa stare, si è messo a riparare tende e lampadine: «La vita vale più del lavoro, ma per noi piccoli commercianti e artigiani sarà una tragedia». Roma desertificata dalla guerra al Coronavirus, in questi primi giorni di quiete forzata, è più bella, “grande bellezza” anche nei luoghi normali, quotidiani, ma lo sguardo delle (poche) persone che ancora si muovono è sospeso, interrogativo, come in attesa di una piena che potrebbe travolgere la vita di prima.
Alle spalle dell’enorme mercato di piazza San Giovanni di Dio, quadrante ovest della Capitale, prezzi popolari e cibo buono, i negozi di via Jenner e piazza Scotti fermati dal decreto del Governo, sono chiusi, una fila triste di saracinesche abbassate come ai tempi del crack del 2007, con la differenza che oggi le serrande sono dipinte dai writer di street art. Francesco Iadevoio è il titolare del “Pozzo der gelato”, bar, tabaccheria, pasticceria, polo nei giorni “di pace” di folla, movida e traffico infernale. Francesco è sull’uscio anche lui, come Vincenzo, serranda a metà, luci spente. «Vendo sigarette quindi potrei rimanere aperto, ma non ho più niente, finite, chissà quando ci riforniranno, subito dopo il discorso di Conte, le persone sono corse a fare la scorta al distributore automatico, ho incassato in una notte quanto incasso di solito in due settimane». Passa una signora bionda con il carrello della spesa. «Francè, mettimi da parte una stecca delle mie, non ti scordare, eh».
Il quartiere è quartiere. Nessuno contesta le regole, il virus è un nemico che non si vede fino a che non ti tocca, ma chi vive sugli incassi giornalieri sente che la crisi è dietro la porta della bottega chiusa. Francesco. «Ho dovuto transennare la pasticceria, oscurare le vetrine, ho regalato tutti i dolci e i cornetti già pronti a due case famiglia, perché d’ora in poi potrò vendere soltanto tabacchi. Ho paura, come tutti. Ma se durerà un mese, due, come farò con il personale, con i fornitori?. Arriveranno gli incentivi, i sostegni, sì, ma quando?» Cronache di resistenza urbana. Basta mettere l’orecchio su questo microcosmo, una piazza, due strade, simili a tante altre a Roma, per anticipare le voci di ciò che sarà. La piena dei contagi. La solitudine dei luoghi che si spengono. Marco Funaro è il proprietario de “I bufalini” negozio di vino e formaggi doc. Prova a smussare. «C’è un’aria di primavera, come si fa a pensare di essere alla vigilia dell’apocalisse? Potrei restare aperto ma chiudo. Per senso etico. Uno di meno in giro. Vado a trovare i miei genitori. Tanto quanto farei? Dieci scontrini al giorno? Vendo mozzarelle “dop”, formaggi, ma in fondo tutto questo si trova anche al supermercato. Da me si può bere un bicchiere di vino, scambiare due parole. Ma non posso più offrire nulla di sfuso. Allora pazienza. Credo nella “cura Wuhan”, meglio più poveri ma vivi».
Oltre il mercato, tra i brutti palazzoni anni Cinquanta di via Ozanam, dove un circolo culturale rende perenne omaggio a Pierpaolo Pasolini che per dieci anni abitò qui, oltre i “lotti” di via di Donna Olimpia raccontati in “Ragazzi di vita”, Sabrina Ressi, estetista, è dentro il suo “atelier” con le porte socchiuse “«Ho un bambino piccolo e sono una mamma single. Lavoro con due colleghe. Noi chiudiamo, siamo serie, non come tante altre che poi clandestinamente fanno i trattamenti in casa. Ma speriamo che finisca presto». Marina spolvera le bomboniere di cristallo della sua bottega “Cose preziose”. «Già due coppie mi hanno annullato gli ordini, non si possono più fare le feste di nozze. Per fortuna i confetti non vanno a male. Ho dieci matrimoni tra aprile e maggio. Che dite, finirà?».
C’è chi però ha già dovuto prendere decisioni amare. Francesco Manu dell’Antico Forno Cotugno: «Dicono che la nostra “pizza e mortazza” sia tra le più buone di Roma. Ma d’ora in poi terrò aperto soltanto mezza giornata. Non ho più clienti. Ho detto ai miei ragazzi: per non licenziare nessuno, lavoriamo tutti la metà».
Resistere, ma sarà dura. Per trovare uno scampolo di allegria bisogna arrivare a Trastevere, oltre piazza San Cosimato, così lunare e vuota da sembrare finta. Massimo e Mariella sono i titolari dell’edicola in via di San Francesco a Ripa. Mariella dice che per lei, di fatto, l’edicola è un esperimento sociale. «Noi i quotidiani li vendiamo tutti. Ma da quando è scoppiato il Coronavirus ci chiedono anche montagne di settimane enigmistiche. Le persone si fermano e parlano. Una battuta, un commento. Forse noi serviamo anche a questo, a rompere la solitudine, a restare umani, nonostante tutto».
In una piazza di Monteverde, a Roma ovest. Dal barbiere al fornaio, i piccoli esercenti non contestano le regole, ma hanno paura.
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