Lo strano ritorno dell’Unione Sovietica

Le proteste divampate a inizio anno in Kazakistan non hanno granché catturato l’attenzione di un Occidente impegnato nella più importante partita ucraina; mentre Putin gioca con una sorta di sindrome da accerchiamento, cercando di risvegliare l’orgoglio nazional-militare dei russi

Prima di entrare in un conflitto bisogna capire le ragioni dell’altro, e sarebbe meglio se a farlo fossero entrambi i possibili belligeranti. Provando a fare la nostra parte dello sforzo, si può dire, semplificando, che le ragioni della Russia sono state chiaramente espresse dal Cremlino: se i Paesi dell’ex Unione Sovietica vengono ammessi nella Nato, Mosca finisce accerchiata, isolata, assediata da un’alleanza militare avversa se non nemica. Il ragionamento ha una sua logica, visto che Nato vuol dire anche missili e tutto il resto che sappiamo.

A questo ragionamento comprensibile se ne oppone però un altro, non della Nato, ma dei Paesi che non appartengono più all’Unione Sovietica. È come se chiedessero: la nostra è una sovranità limitata? Non siamo liberi di decidere della nostra sicurezza nazionale? Non basta appellarsi a principi sommariamente indicati ai tempi del collasso dell’Urss. Il problema allude a due verità.

La risposta occidentale riguardo a questo diverbio è stata chiara: a noi interessa chi può entrare nella Nato, non il principio di sovranità. Ciò è emerso con chiarezza nel caso del Kazakistan, dove il presidente della Repubblica ha invitato Mosca a reprimere la protesta di piazza, adducendo a giustificazione della richiesta la presenza di una “longa manus straniera” dietro le agitazioni. Il patto difensivo vigente escluderebbe interventi armati nel Paese “fratello” per risolvere dispute interne. Eppure è stato lo stesso presidente del Kazakistan che ha cancellato il decreto del suo governo che aumentava il prezzo del Gpl – il carburante più diffuso in questo Paese che è tra i principali produttori mondiali di risorse energetiche. Se lo ha cancellato, considerando che la popolazione ha un reddito che spesso non raggiunge i centocinquanta dollari al mese, vuol dire che quella protesta aveva qualche ragion d’essere.

Ma le ragioni dei kazaki non sono comprese nell’agenda occidentale, probabilmente perché contemporanee con i giorni cruciali della partita ucraina, che evidentemente conta di più. Per gli interessi strategico-militari o per la questione della sovranità? Appare più probabile la prima risposta, visto che il Kazakistan né potrebbe né vorrebbe aderire alla Nato.

L’intervento russo in Kazakistan, davanti a un’esplosione inattesa, si è realizzato nel giro di poche ore, con la stessa unità che intervenne in Crimea ai tempi della sua annessione alla Russia. Per renderlo possibile, il presidente del Kazakistan ha parlato di “ingerenza straniera e presenza di terroristi islamici”. Prima erano kirghisi, poi arabi, poi afghani. Strani questi terroristi che compaiono nel giro di poche ore, tutti vestiti di nero, su pullman che sbucano dal nulla delle steppe. Ma quando si evoca un’emergenza terrorismo occorre prudenza. La popolazione kazaka non è mai stata anti-russa: in Kazakistan vive una minoranza russa, ortodossa, molto robusta. Se questa narrativa dovesse essere confermata nel tempo – e la popolazione, a maggioranza musulmana, cominciasse a nutrire sentimenti anti-russi –, la narrativa potrebbe però diventare realtà.

Per chiudere il riferimento centro-asiatico, è importante notare che il Kazakistan ha chiesto aiuto a Mosca, non al Consiglio dei Paesi turcofoni, del quale fa parte insieme con la Turchia e altri. Un bel colpo all’ immagine di Erdogan, ma questo cosa determinerà per la cosiddetta stabilità degli altri Paesi turcofoni dell’area? Sono tutti ricchissimi di risorse naturali, come il gigantesco Kazakistan, più grande dell’Europa, produttore di tutto in enorme quantità, popolato da soli diciotto milioni di esseri umani, quasi tutti poveri, alcuni molto poveri. Tagliare i nodi con l’accetta non è mai il modo migliore per affrontare problemi complessi che riguardano il riassetto di aree così vaste del mondo.

È impossibile tornare agli anni del disfacimento dell’impero sovietico; ma è anche impossibile non farlo per cercare di capire qualcosa. La Russia fu aiutata dall’Occidente a camminare su gambe normali, a costruirsi un nuovo futuro? O ci fu una corsa all’accaparramento, allo sfruttamento, ad abbandonarla nei guai? È emersa forse allora l’idea putiniana, o più correttamente del secondo Putin, non del primo: se non posso stabilire con il mio popolo un patto per cui voi non disturbate il manovratore in cambio di benessere economico per tutti, allora vi propongo il patto per cui voi non disturbate il manovratore in cambio di una ripresa dell’orgoglio nazional-militare. È la stessa linea che ha scelto Erdogan, anche lui ritenuto dall’Europa preferibile in un destino orientale. Così ora ci si trova davanti a due giganti che non potranno mai amarsi, ma che si scimmiottano soprattutto per il pragmatismo del risentimento.

Il patto nazionalista e militarista proposto da Putin, al pari di quello proposto da Erdogan, fa della religione un’ancella fedele ed essenziale del disegno etno-nazionalista. Questo dovrebbe preoccupare di più di quanto non faccia, perché entrambi ricordano da vicino il tipo di patto che i sovranisti propongono in Europa ai loro elettori. Per liberarsi da questa ideologia militarista, intrisa di uso del religioso, non serve demonizzare: bisognerebbe reinventare un vero multilateralismo.

 

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