Tokaido giga-city. Il Giappone tra post-città e CPS society

Roberto Terrosi

Il nome To-kai-do (東海道) significa letteralmente “strada del mare orientale” e, in effetti, fa riferimento a una delle più importanti arterie del Giappone, fin dall’inizio dell’epoca Edo (1603-1868), perché collegava la capitale, che allora era Kyoto, con la nuova sede dello shogun, Edo, che poi, diventando capitale, cambierà nome in Tokyo. Quindi si trattava della strada che univa la vecchia e la nuova capitale. Già nel XII secolo, vicino all’odierna Tokyo sorse Kamakura, con il bakufu, il governo della tenda, in cui risiedeva il generalissimo (shogun). Questo significa che la strada chiamata Tokaido, sorse già allora.

Questa strada quindi deve la sua importanza alla scissione del potere in Giappone, tra potere imperiale (simbolico religioso) e potere militare (e governativo), in una situazione in cui queste due città o zone rappresentavano come i due poli di una pila, la cui corrente ha animato la storia giapponese dal XII secolo in poi.

Le capitali giapponesi di Nara e Kyoto, così come Atene o Roma, non erano sul mare, e si servivano di un porto, poco distante, che era Osaka. Questa città di mare divenne tanto grande da competere, e poi nel tempo superare, la stessa Kyoto, restando però un centro di commerci, ma non di cultura aristocratica.

Tokyo, come Osaka, nasce direttamente come porto sulla baia, ma quando le navi nere americane forzarono l’isolazionismo giapponese, imponendo l’apertura dei commerci, agli stranieri venne offerto uno spazio per un porto, in una zona poco distante, verso Kamakura, chiamata Yokohama, che divenne un fiorente centro di affari.

La nascita di Yokohama determinò l’apertura agli stranieri di un porto anche vicino a Osaka, quello di Kobe, che divenne così un vivace centro di commerci. Quindi da questa piccola parte storica possiamo dedurre che il cuore della storia del Giappone si è svolto tutto tra queste due polarità, che con le loro città vicine si sono trasformate prima in metropoli e poi in megalopoli.

Chiariamo però cosa intendiamo con questi termini. La metropoli è una grande città che ha ancora un unico centro e ampie e varie periferie, che inglobano solo dei piccoli centri. Diversamente, la megalopoli è l’unione di importanti città vicine o addirittura di diverse metropoli. Ad esempio, nel caso della polarità meridionale, che ha come “centro storico” maggiore Kyoto, la vera metropoli è Osaka, che conta 11 milioni di abitanti, seguita da Kobe che ne conta circa 5, poi da Kyoto che non supera il milione e 400.000 abitanti e infine dall’antica Nara che conta “solo” 360.000 abitanti.

La megalopoli egemonizzata da Osaka e chiamata Keihanshin (京阪神), dai kanji identificativi delle tre città di Kyoto (京都), Osaka(大阪) e Kobe (神戸), è data allora dall’unione di tutte queste città e metropoli in un unico insieme umano ininterrotto, popolato da circa 20 milioni di abitanti.

La stessa cosa si è verificata a Tokyo, che già di per se stessa, pur nel ristretto ambito dei 23 municipi, è una metropoli di 12 milioni di abitanti a cui ne vanno aggiunti altri 12 di Yokohama a cui va aggiunta Chiba con i suoi 6 milioni e poi i comuni più piccoli come Kawasaki con 1.400.000 abitanti e Kamakura con soli 170.000 abitanti. A ciò va aggiunta un’area, che prima era solo campagna e che sta diventando sempre più popolosa, che è Saitama, la quale è arrivata a essere una metropoli di ben 7 milioni di abitanti, pur non diventando mai una vera e propria città.

Tutta questa area, che va a costituire la “grande Tokyo”, rappresenta oggi la più grande megalopoli mondiale, con più di 34 milioni di abitanti. La Greater Tokyo, se fosse uno stato, avrebbe un PIL di 2.2000 miliardi di dollari, cioè più dell’intera Italia, che ne ha 2,181 (fonte IMF World Economic Outlook: April – 2018). La Greater Osaka (o Keihanshin) ha un PIL di 953 miliardi di dollari, cioè più di nazioni come Olanda e Turchia e poco meno dell’Indonesia.

In mezzo poi a questi due giganti, ma più vicino a Osaka, c’è un’altra concentrazione metropolitana, quella di Nagoya, che include anche il distretto industriale di Aichi (sede dell’expo e della Toyota) e che giunge fino a Mie, dove si trova il tempio di Ise, il più sacro del Giappone. Questa piccola megalopoli, chiamata Chūkyō, che raggiunge i 9 milioni di abitanti, ha un PIL di 577 mln di dollari (quasi come il Belgio). Questo significa che l’area della giga-city del Tokaido raggiunge complessivamente i 3.730 miliardi di dollari, ovvero quasi quanto l’intera Germania, e circa i tre quarti dell’intero PIL giapponese.

Tutto questo discorso serve a far capire che le Giga-city sono come degli stati. Oggi Tokaido è la più importante giga-city mondiale, ma ne stanno sorgendo altre. Tra queste la più grande sorgerà in Cina. Anche in questo caso si tratta di una zona che ha una sua storia, sebbene non così lunga e importante come quella del Tokaido. In questo caso si tratta di una storia coloniale, o comunque legata all’Occidente. Parliamo infatti del Guangdong, che i francesi chiamavano Canton, identificando tale regione con la città di Guangzhou, che ne era il centro. Canton era il punto di approdo degli occidentali che volevano raggiungere Pechino. È lì che è sbarcato Matteo Ricci, o il pittore italiano Giuseppe Castiglione, entrambi portati dai portoghesi. È lì che si svolgevano i commerci con la Compagnia delle Indie Olandesi e Inglesi. Per questo motivo i portoghesi stabilirono una loro base navale nella parte bassa dell’estuario del Fiume delle Perle (Zhujiang), fondando Macao, gli inglesi stabilirono invece (con alterne vicende) la loro base dalla parte opposta dell’estuario ad Hong Kong. Questo triangolo commerciale quindi costituisce già di per sé una zona di collegamenti navali già nota. I cinesi però, per volere di Deng Xiaoping, alle spalle di Hong Kong hanno sviluppato la città di Shenzhen, che è presto diventata una metropoli. Allo stesso modo alle spalle di Macao è stata sviluppata Zhuhai. Poi tra Shenzhen e Canton si è sviluppata anche Dongguan, ma anche dalla parte opposta dell’estuario si sono sviluppate Jiangmen, Zhongshan, e infine nell’entroterra si sono sviluppate Zhaoqing, Foshan e Huichou. Ora tutte queste città verranno incluse in una grande giga-city, a forma di bocca (dal satellite di notte sembra la bocca della Cina) che circonda tutto l’estuario, che ha un diametro in media di un centinaio di chilometri sebbene le città più lontane distino fino a 170 km. Questa zona dovrebbe contenere in tutto circa 42 o 44 milioni di abitanti. Ma questa non è proprio la verità, perché di fatto includerà anche Macao (500.000 ab.) e Hong Kong (7,5 mln ab.) raggiungendo un totale di 50 mln di abitanti, grossomodo come la giga-city giapponese, e cioè più dell’intera Spagna. Anche in questo caso tale zona verrebbe ad avere da sola un PIL di 1518 mld di dollari (più dell’Australia o della Spagna).

Una tale concentrazione di popolazione e di ricchezze in relazione agli standard della loro stessa epoca non si era vista dai tempi delle poleis greche, o delle repubbliche italiane del Rinascimento, quando Atene da sola aveva una ricchezza pari a un intero regno orientale o nel Rinascimento quando Firenze da sola era più ricca di tutto il regno d’Inghilterra.

È chiaro allora che le giga-cities, di fatto, rappresentano un passo avanti rispetto alle global cities di cui parlò Saskia Sassen nel 1991, sebbene tra queste vi figurasse proprio Tokyo. La giga-city infatti rappresenta già da sola una città stato o meglio uno stato città all’interno dello stato nazione, che resta sullo sfondo come se si trattasse della sua campagna. Il discorso è leggermente diverso in Cina in cui delle megalopoli come Shanghai, Nanchino o Pechino potrebbero trasformarsi in altrettante giga-cities.

La differenza tra Tokaido giga-city e Guangdong giga-city sta anche nel fatto che quella giapponese è ancora solamente un argomento di discussione, quindi non esiste al momento in sede governativa un progetto Tokaido giga-city, mentre nel caso cinese il progetto c’è.

L’anno scorso quando mio fratello, che ama guidare, è venuto in Giappone, ho pensato che fosse l’occasione buona per attraversare da parte a parte la giga-city del Tokaido e cercare di capire così la consistenza interna di questa struttura urbana.

La giga-city giapponese, diversamente da quella cinese, si estende tutta in lunghezza, assumendo, vista di notte dal satellite la forma di un filamento neuronale. Tokyo è nota per il fatto di non avere uno ma tanti centri. Le grandi metropoli cioè vanno soggette a un fenomeno di proliferazione, come se fosse una cellula che si moltiplica. Nel caso giapponese questo non coincide con diversi luoghi storici, ma con le stazioni dei treni. La struttura della metropoli si basa cioè sui nodi della rete dei trasporti, su cui si muovono quantità enormi di persone. Basti pensare che una di queste, la stazione di Shinjuku, è la più trafficata al mondo, con tre milioni di passeggeri al giorno.

Questo punto è particolarmente importante, perché, indipendentemente dalla struttura delle varie città che si trovano inglobate nella giga-city, il modello reticolare che la governa e che si sovrappone e si impone su quello preesistente, è quello delle stazioni come nodi di traffico e consumi, dal momento che ogni stazione è essa stessa un centro commerciale e ospita nelle vicinanze altri shopping centers e department stores (depato), che deviano tutto il flusso dei consumatori rispetto al tradizionale shita-machi (downtown) o ai tradizionali shotengai (vie del mercato) che giacciono spesso in condizioni di degrado, con le loro vecchie attrezzature e addobbi in stile anni ’60 o ’70. In taluni casi invece lo shotengai si raccorda alla stazione e diviene una sorta di via dello shopping con tanti negozi nuovi anche nelle vie laterali come avviene ad esempio a Kichijoji (una delle zone più gettonate del mercato immobiliare giapponese). Se nei vecchi shotengai troviamo una fila di pensiline mezze arrugginite, sotto alle quali si dispongono vecchi negozietti con abiti fuori moda, o piccoli caffè condotti da anziane signore, o infine qualche macelleria all’aperto e dei fruttivendoli, il tutto specialmente ad uso degli anziani, nei nuovi shotengai si respira un clima diverso, con negozi di moda, caffè per giovani, panetterie, dello stesso tipo che si trovano anche nei centri commerciali. L’atmosfera è luccicante e vi troviamo molti giovani, e molte ragazze che sfoggiano la loro nail art.

La situazione di queste aree di shopping intorno alle stazioni è di apparente vivacità sociale. Basta però entrare in uno dei tanti caffè in stile Starbucks, per accorgersi che in realtà c’è una folla di persone che siedono da sole, leggendo, consultando il proprio smartphone o usando il notebook. Il massimo della socialità è rappresentato da alcune coppie di fidanzati, di amiche, oppure di studenti che vanno a studiare insieme al caffè. Tutte queste persone cioè già si conoscono e dunque il caffè non è un punto di socializzazione. Allo stesso modo nei numerosi ristoranti capita spesso di vedere clienti solitari. Fanno eccezione le comitive di impiegati che vanno all’izakaya dopo il lavoro, o i piccoli bar con il counter (il banco) dove, tra un bicchiere e l’altro, si parla con il barista e con il vicino di sgabello. Lo standard all’interno della giga-city è cioè quello di una generica socialità senza contatto. Una socialità aggregativa che non si risolve in una socialità comunicativa: praticamente l’apoteosi della folla solitaria. Spesso però tutte queste persone comunicano con qualcuno tramite smartphone, come facevano già prima con i cellulari i-mode.

La socialità comunicativa è trapassata cioè nella rete. Questo però è un fenomeno diffuso ovunque. Il punto è come questo si rapporta allo spazio dei flussi sociali nella post-città.

Perché parliamo di post-città? Perché la città è nata come un’unità culturale che funzionava come un microcosmo. La polis aveva al suo interno un mondo divino e un mondo umano, un mondo della produzione e uno del potere, un mondo della vita e un mondo della morte che veniva articolato nella forma di una città dei morti. La rivoluzione industriale ha messo a dura prova questo modello e ha dato avvio alla trasformazione della città in senso a-cosmico e de-mondizzato, con la costruzione delle periferie, dei distretti industriali ecc. Rimaneva comunque a queste città un centro. La post-città in senso proprio non deriva quindi dalla città, ma dal villaggio. La città industriale è stata trasformata dall’immigrazione coatta dalle campagne, in cui la popolazione non conosceva la città come forma simbolica, perché le loro case erano sparpagliate nella campagna. Una volta l’estetologo giapponese Ken’ichi Sasaki mi spiegò che Tokyo non è altro che un aggregato di villaggi, privo di un centro storico monumentale. Da questo punto di vista bisogna anche considerare la struttura del villaggio giapponese. In Giappone infatti non esiste una fase della polis, ma si passa dal villaggio stile età del bronzo, alla struttura urbana di imitazione cinese, che segue dei principii di razionalità, solo apparentemente simili a quelli dell’architettura ippodamea. Quindi la maggior parte dei centri abitati in Giappone non ha mai neanche sviluppato la piazza, come punto d’incontro o luogo di mercato. Nascendo la maggior parte dei villaggi lungo una strada, questa diventava lo shotengai. Dunque, la città giapponese è stata sempre decentrata o acentrica e si è sviluppata su linee di passaggio o canali di traffico. Dunque il rapporto urbanesimo / rete di trasporti è quanto ci sia di più “naturale” nella mentalità giapponese. La differenza è allora solo tra i palazzoni e grattacieli accanto alle stazioni (dove si concentrano tutti gli uffici) e le zone “normali” in cui si trova un pattern ricorrente di caseggiati “attrezzati” grazie alla presenza di convenience store (conbini), uffici postali, cleaning, e cliniche.

Entriamo in Yokohama e dopo la zona dei palazzi, cominciamo un lunghissimo percorso su colline ricoperte da un manto infinito di piccole case. Superato quello si arriva a Kamakura, e tutto cambia perché ci troviamo in una località turistica. Tuttavia, Kamakura, nonostante gli importanti monumenti disseminati qua e là, sembra ancora un grande paese di provincia. Uscendo da Kamakura, si deve seguire la costa su cui si inerpica una strada a strapiombo sul mare. La sensazione è quella di uscire dalla grande megalopoli della Greater Tokyo. Si passa nella natura. Ma allora la giga-city dov’è? Ci stiamo dirigendo verso Hakone, alle pendici del monte Fuji, altra località turistica, ma decidiamo di fare rotta sulla città di Fuji, credendo di trovare un po’ di atmosfera turistica anche là, data la sua vicinanza al sacro vulcano. Ma l’impatto è del tutto diverso. Troviamo solo una città trasandata, che sta tutta raccolta intorno alla stazione, con i suoi shotengai un po’ vecchi e logori. Il giorno dopo continuiamo a scendere verso Shizuoka e Hamamatsu, dove ci fermiamo per visitare la città. Per noi italiani la densità di abitazioni che troviamo lungo la strada non è sorprendente, dato che l’Italia è il paese più antropizzato al mondo, in cui è difficile trovare lunghi tratti disabitati. Per il Giappone in cui esiste una rigida contrapposizione tra campagna e città (soprattutto tra montagna e città) questa media densità abitativa ha un valore diverso.

Hamamatsu è una città nel senso che ha una zona centrale, con i palazzi delle banche, i depato e le sedi istituzionali. Subito dopo Hamamatsu si entra nell’area urbana di Chūkyō la megalopoli di Nagoya. Nagoya presenta il problema tipico della giga-city in cui il nuovo formato della città dei consumi e dei trasporti non coincide con quello della vecchia città, le cui parti storiche, se non fosse per il turismo, resterebbero emarginate dai flussi della circolazione. Ci allontaniamo da Nagoya per andare a visitare il tempio più sacro del Giappone a Ise, dedicato alla dea Amaterasu. Il jingu è immerso in una grande foresta dalla vegetazione lussureggiante, vicino al quale si trova un centro turistico con ristoranti e souvenir (omiyage), tutto palesemente finto, ma in stile set cinematografico di film di samurai.

Proseguiamo quindi la nostra discesa verso Nara, la prima capitale del Giappone, sede di importanti monumenti, ma urbanisticamente squallida. Sembra di stare in uno dei tanti quartieri di periferia di Tokyo o di Osaka. L’unica differenza è l’impressionante quantità di turisti e i negozi di omiyage. Visitiamo il Grande Buddha e ripartiamo verso Kyoto. In tutto il tragitto da Nagoya a Nara e a Kyoto procediamo di semaforo in semaforo, come se dovessimo attraversare il centro di Roma, in una zona sterminata per un centinaio di chilometri, in mezzo a un non luogo, un nulla fatto di caseggiati, negozi appartenenti a varie catene di fast food (McDonald’s, Mos Burger, Kentucky), family restaurants (Coco’s, Saizeriya, Jonathan’s, Royal Host, Sukiya, Italian Tomato), caffè (Doutor, Colorado, Mister Donuts), poi catene di Cleanings, di libri usati e di conbini (Seven Eleven, Lawson, Family Mart), banche (UFJ, Mizuho, Sumitomo), una distesa di abitazioni, per lo più apato (quindi piccoli appartamenti di due o tre stanze su due o tre piani) qualche mansion (palazzine o palazzi) con miniappartamenti, e villette unifamiliari per i più fortunati. Ogni tanto qualche buco per un lotto libero lascia intravedere un cimitero buddista di cui si possono riconoscere le fitte steli di granito rincorrersi in file ordinate, collocato semplicemente tra una casa e l’altra. Un posto come un altro in barba a tutte le credenze giapponesi sui fantasmi. Tutto questo tappeto urbano è ordinato e pulito, ma del tutto insignificante e si estende per chilometri fino all’orizzonte. Come viene costruito questo tappeto urbano? Il principio è lo stesso del pattern che viene ripetuto per fare una texture in tante mattonelle (tiles). Ogni pezzo ha i suoi negozi e servizi. Ogni tanto si trova anche la stazione, o il centro commerciale, o infine l’ospedale e perfino l’università. Qua e là troviamo tratti di campagna incolta e poi ricomincia l’urbanizzazione, tutta indifferente e anonima, in una sorta di educato squallore di una vita senza connotati che scorre tra faccende ordinarie. La giga-city infatti non è un vero agglomerato urbano. Può esserlo come non esserlo. Vi si può trovare il posto famoso e turistico, come la campagna di risaie più desolata. Ciò che rende tale la giga-city è, oltre alla media della densità abitativa, l’organizzazione complessiva della struttura, in primo luogo dei trasporti (come il Tokaido shinkansen, il treno ad alta velocità, che ne è la spina dorsale), dei servizi, delle varie funzioni produttive, assistenziali ecc. in un unico sistema integrato. La giga-city, nel caso del Giappone, è ancora in via di formazione, perché per giungere a compimento ha bisogno di tutta una rete di servizi informatici, basati su smart grids, smart roads, sistemi di risparmio energetico nei vari dispositivi a seconda del numero di utenti, e dunque di tutta una serie di cyber-physical systems (CPS), che interagiscono tra loro in un gigantesco cloud, che dovrebbe trattare un’enorme mole di dati, sincronizzando e coniugando tra loro tutte le varie reti che regolano i servizi della post-città. In questo modo la giga-city sarà proprio rappresentata da questo cloud che risponderà come un’unica macchina intelligente ai bisogni e all’entropia prodotta dalla popolazione che la abita.

Affinché quindi questo giga-system possa funzionare bene, tutte le funzioni della vita quotidiana dovranno essere immerse nella rete, dando dati su ciò che si fa e ciò che si intende fare. In questo modo l’automobile automatica dirà alla rete che ha bisogno di rifornimento e gli risponderà il distributore libero più vicino. L’uomo non farà niente, si farà portare da una parte all’altra del mega non-luogo, in cui vive, a seconda delle sue scadenze. Si muoverà come già si muove in mezzo a una collettività che non è una comunità, attraverso una socialità tramite il sistema, ma quasi priva di incontri diretti dal momento che i luoghi che egli frequenta sono luoghi di incontri teoricamente possibili, ma altamente improbabili. Sono così luoghi di incontri mancati, perché non servono ad incontrarsi, ma a consumare o ad erogare servizi.

Così questa post-città non solo non ha più la forma della città, ma neanche il contenuto, dal momento che la città era luogo di incontro. Da questo punto di vista allora la giga-city è l’anti-Atene e l’anti-Firenze. Un grande apparato fatto per produrre business come uno stato avanzato, ma non per produrre umanità. L’umanità nella giga-city sopravvive a stento, alla scomparsa dei nodi e dei circoli della città sotto la nuova griglia delle grandi infrastrutture di comunicazione e alla crisi di un’umanità spinta dai pressanti meccanismi di routine che si accavallano tra loro. La giga-city così offre la sensazione di poter usufruire di tutto (una ragazza mi disse che a Tokyo si poteva trovare il meglio di tutti i prodotti del mondo), senza avere poi l’opportunità pratica di poterlo fare. Appunto si è collegati con tutto ma con pochissime chances di contatto. Allora non stupisce che questo sia quel Giappone in cui sono apparsi gli otaku e l’hikikomori. Fuori della propria abitazione non c’è il mondo della funzione umana della socializzazione, ma solo il traffico immane di altri individui che si spostano verso le loro mete funzionali. In questo senso allora questi fenomeni di isolamento o autoreclusione non sono determinati da un rifiuto della socializzazione ma dall’essere rifiutati dalla socializzazione stessa, la qual cosa genera insicurezza, disagio e chiusura in se stessi. Non stupisce che vari di questi abitanti vadano all’estero, dalla zona più popolosa del mondo, per cercare di conoscere qualcuno. Clamoroso fu il caso dell’omicida di Akihabara, che annunciò sui social l’intenzione di voler fare una strage se nessuno avesse provato a fermarlo. Tuttavia, il suo drammatico appello rimase inascoltato anche quella volta e allora decise di dare seguito al suo piano omicida, proprio in quella Akihabara che è il centro dell’elettronica e della otaku culture. Questo è il meccanismo di una città che espandendosi in forma incontrollata e mostruosa diviene prima post-città e forse infine anche anti-città.