Terza Repubblica cercasi.

 

LO SCENARIO
SIAMO viandanti, pellegrini. Siamo un popolo in cammino, verso una terra promessa di cui ci è noto unicamente il nome: Terza Repubblica. Miraggio semantico che risuona di continuo nei nostri conversari, ora perché l’uno ti sprona ad accelerare il passo, ora perché l’altro t’avvisa che quella terra è già sotto i tuoi piedi, ne hai oltrepassato i confini senza riconoscerla, senza farci caso.
PAGINA TU NEL frattempo esiti, scantoni. Ti senti spaesato, non sai più chi sei, non sai dove ti trovi. Come definire questo paesaggio glabro che ti circonda in lungo e in largo? È il secondo tempo della Seconda Repubblica, quella battezzata all’alba degli anni Novanta? È il profilo incerto della Terza? O è forse l’eterno ritorno della Prima, come parrebbero attestare le faglie che dividono in partiti e partitini il Parlamento, come altresì confermerebbe la rivincita del proporzionale, dopo vent’anni di maggioritario duro e puro? Nel dubbio, chiedi soccorso ai libri, ascolti la voce degli esperti. Bisognerebbe metterli d’accordo, però, almeno sulle date. Giacché un volumetto di Mauro Calise ne celebrava la nascita già nel 2006, un altro di Davide Giacalone posticipava il lieto evento al 2010, mentre nel 2014 Perry Anderson dichiarava che l’Italia è incinta della Terza Repubblica, ma chissà poi se il parto avrà successo, chissà quando potremo guardare in faccia la creatura. Risposta corale: quando ci investirà con la sua luce la Grande Riforma, palingenesi delle nostre istituzioni. E infatti nel 2016 l’approvazione del ddl Boschi fu salutata con parole unanimi, anzi con una doppia parola: Terza Repubblica.
Sempre l’anno scorso, tuttavia, un referendum gettò quella riforma nel cestino dei rifiuti, sicché adesso non sappiamo più cosa pensare. Significa che l’Italia è balzata nella Quarta Repubblica senza passare per la Terza? Non avremmo tutti questi grattacapi se numerassimo le repubbliche attraverso la successione delle Carte costituzionali, come in Francia, dove ne contano cinque.
O se ci regolassimo in base all’alternanza fra monarchia e repubblica, come in Spagna, dove il regno di Felipe VI ha due repubbliche alle spalle. Ma noi no, noi abbiamo escogitato un sistema più tortuoso, più intricato: ci sbarazziamo delle nostre vecchie repubbliche senza troni né assemblee costituenti, mettendo in fila le diverse Costituzioni «materiali» che s’avvicendano a dettare le regole del gioco. Siccome però la Costituzione materiale è un fantasma che non si può toccare, leggere, emendare, ciascuno conta a modo suo, e in ultimo finiamo un po’ tutti a dare i numeri, senza strumenti per comprendere la realtà politica e civile.
C’è allora una notizia da annunciare agli astanti: la Terza Repubblica è già qui, e lotta insieme a noi. Sennonché per riconoscerne i tratti dobbiamo sostituire gli occhiali che inforchiamo sul naso. Quegli occhiali guardano al sistema dei partiti, senza mettere a fuoco i cittadini. E dunque, Prima Repubblica: legge elettorale proporzionale, multipartitismo. Seconda Repubblica: maggioritario, bipolarismo.
Giusto, però anche sbagliato. Perché al centro di ogni sistema democratico c’è pur sempre l’elettore, c’è la delega in bianco che quest’ultimo firma nei riguardi dell’eletto. Durante la Prima Repubblica (1948-1993) la nostra delega finiva nelle tasche del partito: votavamo la Dc, non Andreotti o Moro. C’era una sorta di fiducia collettiva nei partiti politici, e i partiti avevano la propria casa comune in Parlamento, che di conseguenza incarnava il baricentro delle istituzioni. Poi, nella Seconda Repubblica, la fiducia è diventata un afflato individuale verso il leader: votavamo Prodi o Berlusconi, non la sigla (mutevole come uno spot pubblicitario) che ne accompagnava il nome sulla scheda elettorale. Da qui il primato del governo sulle assemblee legislative, da qui un presidenzialismo di fatto, benché mai trasposto in norma scritta.
E adesso? Dalla fiducia alla sfiducia. Abbiamo i partiti in gran dispetto, ma non ci innamoriamo più di nessun leader, o se succede dura lo spazio d’una notte, com’è accaduto con Virginia Raggi a Roma. Perché questo è il tempo del disincanto, del ritiro della delega. Ne è prova la volubilità del corpo elettorale, ne è prova l’astensionismo che monta come un fiume in piena.
Però dietro questo sentimento negativo c’è un’energia che reclama istituzioni in grado di raccoglierla, d’incanalarla. C’è una domanda di democrazia diretta, un desiderio di decidere senza filtri, senza investiture. È in crisi la delega, non la politica. Ma nella Terza Repubblica quest’ultima spetta ai cittadini.
michele.ainis@uniroma3.it
La Repubblica