«Sunshine State», nei sogni traditi d’America

IN MOSTRA. Il regista Steve McQueen ha presentato a Milano in prima assoluta la sua esposizione, un percorso di videoinstallazioni e sculture sonore, visitabile all’HangarBicocca fino a fine luglio. Il razzismo vissuto dal padre e il sudore dei minatori sudafricani, esperienze che hanno ispirato la creazione

Simona Spaventa, MILANO

«Mio padre si chiamava Philbert, un nome molto vittoriano, e una delle ultime cose che mi raccontò prima di morire fu la storia di quando, da migrante, lavorava in Florida negli anni Cinquanta». La voce bassa e ruvida di Steve McQueen risuona nell’enorme spazio buio del Pirelli Hangar Bicocca, parte sonora di Sunshine State, l’opera che dà nome alla mostra milanese (aperta fino a fino luglio), prodotta dall’International Film Festival di Rotterdam e presentata in prima assoluta all’Hangar.

IL CINEASTA e artista visuale londinese, premio Oscar nel 2014 per 12 anni schiavo, ha dato alcune chiavi di lettura per la visita nell’incontro pubblico tenuto venerdì sera, in cui ha conversato con la storica dell’arte Cora Gilroy-Ware, autrice di alcuni testi del catalogo. Razzismo, lavoro, sfruttamento, concetto di libertà sono i temi centrali dell’esposizione, declinati in sette opere realizzate dal 1999 a oggi. Su tutte, la nuova video installazione Sunshine State, il cui cuore pulsante muove da un episodio di razzismo vissuto dal padre: in Florida per raccogliere arance, scavalcò il muro del campo dove lavorava e con due ragazzi giamaicani andò in un bar. Lì dissero che non servivano i negri. Loro reagirono, li inseguirono, spararono: solo il padre, nascosto in un fosso, si salvò. «È st

ato difficile inserire questo episodio nell’opera – confessa McQueen. Ci ho messo vent’anni a realizzarla. All’inizio volevo lavorare sul film The Jazz Singer, su Al Jonson che si mette la cera in volto per farsi la faccia nera e cancellarsi (nell’opera compaiono spezzoni del film del 1927, il primo film sonoro, rielaborati in modo che il volto dell’attore diventi invisibile, ndr). La storia di mio padre non la conoscevo, me l’ha raccontata una sola volta, in punto di morte. E io ho sentito che dovevo raccontarla, doveva uscire dalla mia bocca, con la mia voce. Non l’ho scritta, l’ho improvvisata. Anche nei film mi affido molto all’improvvisazione. Ma prima devi creare un contesto in cui gli attori si sentono a loro agio. Solo dopo puoi improvvisare, come in una jam session di jazz».

LA CENTRALITÀ del suono è evidente nella mostra, tanto che l’autore parla di «scultura sonora», di relazioni e interazioni tra l’audio delle opere nello spazio enorme dell’Hangar: «È una specie di danza, un rapporto che evolve, una sorta di dissolvenza da un brano all’altro come nella playlist di un dj». Entrando, si viene colpiti dal rumore delle pale di un elicottero in volo attorno alla Statua della Libertà. È Static, video del 2009 proiettato su uno schermo di grandi dimensioni: «Ricordo la prima volta che andai a New York, con la mia famiglia. Avevo sette anni, c’era un blackout, sulla Statua della Libertà dovemmo salirci a piedi. Le scale, il caldo, il sudore. Ma da sopra la vista era incredibile. Pensai: “Straordinario, è l’America”. Un posto dove la Costituzione parla di felicità, e hanno fatto un monumento alla libertà. Con il video volevo misurare a che punto siamo nella sua conquista».

NON C’È LIBERTÀ, ma sfruttamento e fatica, in Western Deep, che filma nel 2002 i minatori d’oro di TauTona, in Sudafrica: «Ho usato il Super8 perché è molto piccolo, una scelta pratica. Fu un’esperienza dura, pericolosa. Cinquemila uomini lavorano su turni di dieci ore,

ma restano quattro chilometri sottoterra anche diciotto ore, ci vogliono quattro ore per scendere e quattro a risalire. Si suda come pazzi, sono stato giù tutta la giornata. Il sudore, il calore come nel sole che apre Sunshine State, il lavoro. Sono cose che ritornano nella mostra, ci sono interconnessioni». Il percorso che si snoda nel buio, «dove ti perdi e ti ritrovi. L’oscurità è come un velo in cui ci si muove in modo diverso, si può essere qualcosa di altro da sé. Dimentichiamo chi siamo, e questo fa scattare un rapporto più intimo con le opere, un agio diverso». Esposta c’è anche una scultura, Moonlit, due pietre ricoperte di lamina d’argento come fossero rocce lunari. Ma che cose determina la forma di un’opera, che essa sia destinata a essere un video d’arte o un lungometraggio per il cinema? «Non c’è una scala di valori in quello che faccio. È il soggetto a dirmi quello di cui ha bisogno, a chiedermi come vuol essere rappresentato».

https://ilmanifesto.it/