Kabul nel cuore anche dopo 40 anni Ettore Mo, racconti di un inviato

Corrispondenze Un giornalista e la storia. «Io sono il Terzo Mondo»

Era il 1979 quando arrivò in Afghanistan per la prima volta. Le avventure, gli incontri

dalla nostra inviata Elisabetta Rosaspina

ARONA (Novara) Quando al coraggio e alla caparbietà di arrivare ovunque, anche a dorso di mulo, in sella a una sgangherata motocicletta o a piedi attraverso montagne coperte di neve, si sommano uno sguardo pieno di umana compassione e la capacità di descrivere ed emozionare il lettore senza cadere nella retorica e risparmiando gli aggettivi, il risultato è quasi sempre Ettore Mo.

Sono passati quarant’anni esatti e Mo, che nell’estate 1979 ne aveva 47, era un inviato relativamente inesperto, quando scoprì la sua vocazione di cronista di guerra.

L’allora direttore del «Corriere della Sera», Franco Di Bella, aveva deciso di sperimentarne il talento all’inizio dell’anno, tra i pasdaran di Khomeini: «Hai il passaporto in ordine? Allora parti subito per Teheran» gli aveva ordinato Di Bella incrociandolo in un corridoio della redazione di via Solferino, dove Ettore si occupava di spettacoli, teatro, musica lirica e cantanti pop.

«Doveva essere attorno a Capodanno e probabilmente tutti gli inviati di Esteri erano in vacanza» ipotizza lui con modestia. Ma l’archivio del «Corriere» lo smentisce: il giorno dell’Epifania del 1979 Mo si stava ancora occupando del Festival di Sanremo e soltanto verso la fine febbraio, quando la redazione non era certamente sguarnita, spedì la sua prima corrispondenza da Tabriz: «Come si vive in Iran dopo la rivoluzione con gli occhi dell’ayatollah sempre addosso», era il titolo in prima pagina. L’aeroporto di Teheran era stato chiuso e Mo si era avventurato via terra, dalla Turchia, sotto lo sguardo di Khomeini formato manifesto lungo le strade iraniane: «L’ayatollah imperversa, non dà scampo in questi giorni — scriveva —. Ti aspetta alla frontiera e, appena dentro, ti viene incontro dal muro, con le sue pupille nere folgoranti».

Pochi mesi dopo arrivò l’incarico che lo avrebbe consacrato tra i grandi inviati italiani di tutti i tempi: «Per me la guerra dell’Afghanistan cominciò quella mattina di giugno del ’79 nella valle di Kunar quando dall’alto di una montagna vidi una piccola zattera che attraversava il fiume. Galleggiava su vesciche d’animale gonfie d’aria e gli uomini armeggiavano a fatica nella corrente vorticosa». Esordisce così Kabul Kabul, il libro in cui Ettore Mo e Valerio Pellizzari hanno riunito le loro esperienze afghane dieci anni dopo (Vallecchi Editore, 1989). Non servivano aggettivi a questa immagine iniziale che non ingiallisce neppure dopo quarant’anni: «Ma i due ragazzi adagiati sotto il telo bianco non sentivano le voci, né gli scossoni, né il gorgoglio dell’acqua che, filtrando da sotto l’imbarcazione, gli scioglieva il sangue raggrumato nelle ferite».

Da allora in poi, per più di trent’anni, Ettore non si è mai fermato. L’Africa, il Medio Oriente, i Balcani, tutta l’Asia e l’America Latina sono stati i suoi terreni di caccia abituali. Ma è ancora e sempre Kabul il luogo della sua anima. Il nord su cui s’impunta l’ago della sua bussola sentimentale. Kabul, la Valle del Panjshir, Jalalabad, Kandahar, il leggendario Khyber Pass, che ha dovuto evitare decine di volte per infiltrarsi clandestinamente dal Pakistan mimetizzato tra i mujaidin e con i partigiani di Ahmad Shah Massoud, il leader tagiko della resistenza ai sovietici, prima, e al fanatismo dei talebani poi.

Il suo amico Massoud, indimenticabile: «Ho ancora il mio berretto, uguale a quelli che usavano lui e i suoi uomini — sorride Mo —, da qualche parte, a casa».

Ettore celebra con Pellizzari, storico inviato de «Il Messaggero» e compagno di molte trasferte, il quarantesimo anniversario di quella sua prima spedizione afghana nell’estate 1979, seduti al tavolino di un caffè sul lungolago di Arona, dove vive con la moglie Christine. Una birra per lui, un espresso per Valerio, tanti ricordi comuni da spolverare, incasellare assieme a nomi di politici, generali e comandanti, indelebili quasi soltanto per loro.

Nei dieci anni dell’occupazione sovietica, Mo era «dalla parte dei mujaidin», anche con il cuore. Pellizzari «dalla parte dei russi», ma per motivi esclusivamente professionali. E così è stato suddiviso anche il loro libro a quattro mani.

Si sono conosciuti durante la guerra civile in Sri Lanka, nel 1987. In Afghanistan, curiosamente, non si erano mai incontrati: «Ettore scendeva da nord e io salivo da Islamabad, ci giravamo intorno — ricorda Pellizzari —. Non ci siamo visti neppure in Pakistan dove si andava per intervistare i leader dell’opposizione e della resistenza in esilio». Ma non Massoud: «Lui era un solitario — interviene Ettore —, non si concedeva. Bisognava andare a cercarlo nel suo villaggio sulle montagne del Panjshir, fare un tratto di strada in auto e poi via, a piedi, arrancare fin lassù. Mi piaceva proprio perché non si faceva vedere facilmente. Dovevo essere io a trovarlo ma, quando mi vedeva spuntare, era contento. Non si fidava di chiunque». Tranne il 9 settembre 2001, quando accettò di ricevere i due terroristi tunisini, camuffati da giornalisti televisivi, che lo assassinarono, 48 ore prima dell’attentato alle Torri Gemelle. Da allora il ritratto di Massoud è appeso all’ingresso della casa di Mo, come quello di una persona di famiglia.

Ci vuole un aneddoto allegro, per togliere l’ombra di tristezza dagli occhi di Mo. Pellizzari ce l’ha: «La bottiglia di Amarone!» esclama. Esatto, non battaglia: bottiglia. Doveva essere la primavera del 1989 e l’Armata Rossa si accingeva ad abbandonare l’Afghanistan. «Io ero a Kabul ma Ettore era bloccato a Bombay perché le autorità filosovietiche afghane rifiutavano di concedergli il visto» rammenta Pellizzari. «Mi odiavano per quello che scrivevo» lo interrompe Mo. «Ti odiavano perché andavi con la guerriglia — ride Valerio, prima di proseguire —. Quindi ho scritto una lettera all’allora presidente Najibullah, perché intercedesse. Da anarchico quale sono, non mi ero mai rivolto a qualcuno chiamandolo “eccellenza”, ma per Ettore l’ho fatto».

La situazione parve sul punto di sbloccarsi. Il ministero degli Esteri afghano rilasciò un pezzo di carta che assomigliava vagamente a un lasciapassare. Ma s’intromisero i servizi segreti: Mo non era gradito. Pellizzari sperava ancora che Ettore la spuntasse: «Avevo con me una bottiglia di vino Amarone, fatto con l’uva della mia vigna in Veneto. E l’ho affidata a padre Angelo Panigati, parroco della cappella interna all’ambasciata d’Italia, dicendogli: la dia a Ettore quando arriva…».

Mo scoppia in una risata e completa la frase: «Sì, la dia a Ettore, che avrà sete quando arriva!». Ma alla fine il visto fu negato e la bottiglia restò sotto la protezione del barnabita, che aveva rifiutato di lasciare la sua chiesa, anche quando tutti i diplomatici erano stati evacuati per ragioni di sicurezza.

Pellizzari tornò a Kabul all’inizio del 1990, pochi giorni dopo che l’ambasciata italiana era stata semidistrutta da una bomba durante la rivolta del generale Shahnawaz Tanai: «L’onda d’urto aveva catapultato per trenta metri il povero padre Panigati e il suo grosso cane, un incrocio con uno sciacallo — continua Pellizzari —. Ma erano rimasti quasi illesi. E, appena mi ha visto entrare, il prete mi è corso incontro gridando: l’Amarone è salvo!».

Era difficile che Mo non trovasse un mezzo per arrivare dove si era prefissato, soprattutto in Afghanistan: «Una volta comprai un cavallo in Pakistan per passare il confine lungo sentieri secondari. Era costato poco» si giustifica. Il povero animale, battezzato Taraki per scherno di Nur Mohammad Taraki, il più sanguinario dei presidenti afghani sponsorizzati da Mosca, fece il suo dovere e purtroppo una brutta fine: «I mujaidin affamati se lo mangiarono, dissero che era morto cadendo nel fiume» ne dubita Mo, che nella sacca della biada del suo destriero aveva tenuto nascosto per tutto il viaggio un grosso rotolo di dollari, la sua intera riserva di denaro. Ma quella miracolosamente si salvò.

L’angelo custode che, secondo Pellizzari, non perde mai di vista Ettore Mo ebbe il suo bel daffare anche alla frontiera fra il Nepal e il Tibet, controllato da Pechino: «Era l’estate dell’88» inizia Valerio. «Fingevo di essere uno studioso di musica classica, un esperto di opera» aggiunge Ettore. I giornalisti occidentali non erano benvenuti dopo la rivolta tibetana dell’anno precedente. Ma Pellizzari e Mo, che si erano dati appuntamento a Katmandu, viaggiavano sotto mentite spoglie verso Lhasa mescolati a un gruppo di sedicenti turisti. Attraversando la boscaglia furono aggrediti dalle sanguisughe e al valico, a 5.000 metri d’altitudine, si sentirono tutti male per l’aria rarefatta: «Tranne Ettore, che giocava a pallone con i soldati cinesi» testimonia Pellizzari.

I veri problemi si posero al ritorno, in aeroporto, ai controlli di sicurezza: «I monaci tibetani ci avevano affidato carte e documenti da portare in occidente per denunciare la repressione di cui erano vittime. Io li avevo nascosti tra le pagine dei miei libri, Ettore nei suoi scarponi, appoggiati alla suola. Ma i ganci di metallo delle sue stringhe fecero suonare il metal detector — Valerio ancora adesso suda freddo —. Gli agenti cinesi gli ordinarono di togliersi le scarpe». Ettore era convinto di essere spacciato. «Invece si limitarono a farle passare di nuovo con la valigia ai raggi X». La preziosa documentazione e i suoi temerari corrieri proseguirono incolumi.

E, oggi, quale angolo del pianeta appassiona ancora Ettore Mo? «Il Terzo Mondo, sempre il Terzo Mondo risponde allegramente —. Io sono del Terzo Mondo». E stavolta non scherza.

 

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