STRANIERO.

è il nostro specchio
STRANIERO
Diverso. Straordinario. In una terra
non sua. Per questo ci inquieta.
Perché ci mette di fronte
alla nostra identità. Sconosciuta
«L’incontro con gli altri è ricchezza ma anche scontro. Perciò migrare è un atto politico. E solo chi non si sente tutt’uno con una nazione può dissentire»
IVAN CANU
quando parliamo degli stranieri? Lo abbiamo chiesto a Donatella Di Cesare, filosofa, studiosa di Heidegger, anarchica, femminista, donna impegnata nella lotta per i diritti dei migranti e pensatrice tra i più radicali nella critica dello stato delle cose esistenti nel nostro Continente.
Cominciamo dalla definizione: cosa è uno straniero?
«Lo straniero è una persona che viene da lontano ma che è prossima, perché si è avvicinata. In tutta la storia del pensiero la definizione dello straniero è stata molto problematica perché la parola straniero indica una relazione e non uno status fisso. Per me, la parola straniero ha almeno quattro significati. Prima di tutto, lo straniero è l’esterno, lo è rispetto a quello che sta dentro. È come se parlassimo dell’assegnazione dei posti; indicando lo straniero traccio un confine e dico: io sono dentro, tu straniero sei fuori. Il secondo significato è più semplice: lo straniero è estraneo, è estraneo rispetto al proprio».
Proprio come proprietà?
«Esatto. La definizione si basa sul possesso. È dirimente la terra e il territorio. Straniero in questo contesto è uno che non è proprietario della terra e del territorio. Ma attenzione, un estraneo lo è anche rispetto all’identità».
Ci torneremo. Intanto il terzo significato?
«Lo straniero è l’insolito, stravagante, strano, inquietante. Lo straniero incarna tutto quello che è fuori dall’ordinario e dall’ordine stabilito. Lo straniero è quindi straordinario. Dove però straordinario ha un significato ambivalente. Chiamiamo straordinario un genio ma straordinario è anche un folle. E di fatti c’è un’affinità tra lo straniero e il folle. Infine, lo straniero, essendo straordinario eccede l’ordine; quindi è eccezionale, rivoluzionario, è colui che può ribaltare l’ordine».
Ha appena detto che lo straniero è come il folle.
«Ha presente “Stultifera navis”? La nave dei folli (opera di fine Quattrocento di Sebastian Brant che ebbe una grande popolarità in Europa, ndr). In alcune città, alle soglie della Modernità, non sapevano come liberarsi dei folli. Ad Amburgo o Brema, o a Venezia, li mettevano su un battello e li mandavano via. In alcuni casi li affidavano ai marinai. Si pensava che il folle, viaggiando potesse recuperare la ragion perduta, oppure che il marinaio fosse così coraggioso da essere folle. Lo stesso avviene per gli stranieri. Il folle sconfina nello straniero. Lo straniero diventa folle e viceversa».
Lo sconfinamento è dovuto alla non appartenenza?
«Sì, il folle, come lo straniero non appartiene alla città; è straordinario, usa altri codici. Ma la cosa interessante è il passaggio nell’Ottocento. Avviene che il folle perde l’aura di estraneità e diventa una sorta di rifiuto: nascono i manicomi».
Cose descritte da Foucault in “Storia della follia”.
«Certo. Ma io voglio dire che c’è il parallelo tra il folle e il migrante. Il punto è che noi usiamo parole che sembrano sinonimi: profughi, rifugiati, migranti, immigrati, stranieri. Ma non sono sinonimi. Il migrante è il grado zero dell’umanità. Lo straniero invece ha l’aura dell’altrove; è l’esotico. Lo straniero è più rassicurante del migrante. Lo straniero viene d’altrove, ma prima o poi andrà via».
La differenza è di classe? Hanna Arendt, intellettuale e borghese anche da apolide era straniera non migrante?
«Sì. Il migrante è la spoglia nuda dello straniero. E la sua nudità ci fa paura. Il migrante è privo dell’aura e sebbene sembra di passaggio, minaccia di restare qui. Il migrante è colui o colei che viene, sbandierando la propria povertà».
Sta dicendo che il migrante ha solo il proprio nudo corpo?
«Certo. E aggiungo che ha molte colpe, ai nostri occhi gravissime. La prima: essersi mosso. E questa è la colpa originaria; il migrante è un pre-giudicato».
Infatti lo chiamiamo clandestino.
«Clandestino vuol dire uno che nascostamente non rispetta il confine. Il clandestino dal momento che si è mosso ha messo a repentaglio l’ordine del mondo. Non avrebbe dovuto farlo. Il migrante non rispetta la relazione fuori-dentro, a differenza dello straniero».
Una volta, in una conversazione, Zygmunt Bauman mi disse: per me essere straniero è un privilegio. Posso dire certe cose che un autoctono difficilmente direbbe. Poi aggiunse: in fondo questa è la situazione di molti intellettuali stranieri in Occidente.
«È così. Il migrante, a differenza di un intellettuale dissidente, viene per ragioni economiche. Da qui, la retorica: il rifugiato sì, il migrante no. Ma si tratta di una distinzione fittizia. Sappiamo bene che è impossibile distinguere davvero tra un rifugiato e un migrante. Rifugiato poi, sembra una parola che promette redenzione».
Perché promette redenzione?
«Perché il rifugiato chiede asilo e quindi viene redento dalla comunità che lo ospita. Il migrante no. Ma qualcuno dovrebbe spiegare perché i diritti economici debbano essere meno importanti e meno pregnanti di quelli politici. Del resto, sappiamo quanto tutte le cause siano concatenate. Ripeto: il rifugiato lo redimo, il migrante no, viene trattato da colpevole».
Altre colpe del migrante?
«Resta e non si lascia assimilare. Non si adegua agli usi e costumi della comunità».
Noi tutti ci definiamo rispetto ad Altro. E chiediamo ad Altro di integrarsi, di assimilarsi, di diventare come noi. Ma nel momento in cui l’Altro lo fa gli ricordiamo: guarda che tu sei Altro, fai solo finta di essere uno di Noi. La dialettica di inclusione-esclusione degli ebrei nella Modernità (descritta da Arendt e da Bauman) è simile alla attuale dialettica rispetto agli immigrati. All’immigrato si dice: ti vogliamo integrato, ma non oltre un certo punto, perché anche da integrato devi ricordarti che sei Altro. L’esempio più banale (e innocuo, quasi tenero): congratularsi con lo straniero che sta qui da decenni e lavora con la lingua italiana, per come sa bene l’italiano. Come se ne esce?
«Rispondo così: ci fa comodo essere cittadini. Ci fa comodo che lo Stato ci difenda. Ci fa comodo che lo Stato preservi i nostri diritti. La grande contraddizione dell’epoca della globalizzazione è quella tra i diritti civili e i diritti umani».
È la tesi di Agnes Heller. La filosofa ungherese dice che fin dai tempi della Rivoluzione francese i diritti civili e i diritti umani sono in contraddizione. Quelli civili spettano ai cittadini, ed escludono l’umanità. Quegli umani annullano la nozione di cittadino.
«In questo ambito siamo tutti complici. Secondo questa visione del mondo, i cittadini essendo sovrani, hanno il diritto di decidere chi far entrare e chi non far entrare nel loro Stato. Si tratta di una materia che divide la stessa sinistra. Anche Heller, da questo punto di vista è una sovranista».
I cittadini dovrebbero poter decidere con chi condividere il territorio. Basta che i criteri non siano razzisti, xenofobi…
«La sua annotazione tradisce l’adesione a un sovranismo, direi moderato, socialdemocratico. Io invece sono radicalmente anti-sovranista. C’è un punto che voglio sottolineare: essere cittadini non significa essere proprietari del territorio nazionale. Le racconto una storia. Un giorno, un mio collega tedesco mi ha detto: per me un migrante è come un intruso in casa mia; a nessuno piace aprire la mattina la porta del salotto e trovare un estraneo».
E lei cosa ha risposto?
«Che un conto è la proprietà di un appartamento, altra cosa è territorio nazionale. Per questo motivo io dico che il cittadino non è legittimato a decidere chi entra e chi no. Io posso decidere con chi convivere, ma non con chi coabitare. Ma torniamo al concetto della sovranità. Noi abbiamo la visione del cittadino che è sovrano. Quindi quando arriva il migrante, la prima cosa che sente dire è: non puoi entrare. Ma poi esiste il dispositivo del capitalismo per cui lo facciamo entrare lo stesso perché serve forza lavoro. E per rispondere alla sua domanda sulla dialettica esclusione inclusione: nel caso in cui il migrante diventa immigrato il cittadino gli dice: ti devi integrare assimilare ma non del tutto. Perché se ti assimili del tutto, io non ti posso più identificare e quindi controllare».
A questo punto però non è chiaro chi è, secondo lei, il sovrano.
«È la grande domanda della filosofia. Io sono radicale: per me il sovrano è solo Dio e non esiste altra sovranità e penso anche che sia arrivato il momento di deporre ogni sovranità. Ciò detto; nel concreto la sovranità esiste e appartiene al popolo. Ma il popolo, in una democrazia, è demos non etnos».
Stabilito che siamo lontani da ogni tentazione di etnocentrismo, dovrà ammettere però che un immigrato, nella fattispecie, non cristiano, farebbe bene a sapere chi fossero Dante, Michelangelo, Manzoni e che per poter davvero apprezzare le loro opere occorre sapere cosa sono i Vangeli e qual è il significato di un crocifisso…
«Evidente. L’incontro con altri è ricchezza. Ma l’incontro delle religioni, delle tradizioni, delle culture, può però essere anche uno scontro. Ecco perché migrare non è solo muoversi. Migrare è un atto esistenziale e politico: incontro e scontro. Faccio un esempio. Sono stata a Palermo in un centro di prima accoglienza dei minori non accompagnati. È giusto che quei ragazzini imparino l’italiano, che leggano Verga e Dante. Ma è giusto anche che ci sia un interesse dalla parte nostra per il loro bagaglio. L’incontro deve essere dialogico. Non lo dico per retorica ma perché l’identità non è fissa, non è granitica, è sempre fluida. E vorrei aggiungere: l’accoglienza non è un gesto di carità né etico, ma un atto politico. Io salvo la tua vita ma poi ti chiedo chi sei e cosa hai in testa».
Abbiamo parlato prima dei confini. Il confine cosa è? È un’invenzione?
«È un’invenzione, certo. Fino alla prima guerra mondiale non c’era tutta quella ossessione dei confini che viviamo oggi e che nasce con la fase degli Stati nazionali. Ripeto: oggi è un’ossessione, pensi ai muri che si innalzano: Trump, gli spagnoli. Poi c’è un confine interno, della nostra quotidianità: tra il ricco e il povero, tra l’italiano e l’immigrato. È una frontiera molto forte».
Se lo immagina un mondo senza confini e quindi senza stranieri?
«Non credo che lo vedremo, ma me lo immagino. Restano comunque i confini tra me e l’Altro».
Lo straniero è anche uno specchio?
«Sì. Nello straniero vediamo la nostra estraneità, che ci fa paura. Gli esempi sono banali; ci fa paura sentire la nostra voce registrata, o guardarci allo specchio osservandoci. Noi questa estraneità la cerchiamo di rimuovere. Dal punto di vista della nostra psiche è la questione centrale. Mi spiego: tendiamo a pensare che la nostra identità sia fissa e immutabile. E invece non è così: oggi siamo diversi rispetto a ieri, per fare un’osservazione banale. Vede, lo straniero è uno specchio della nostra scissione intima, della ferita che ciascuno di noi si porta dentro la psiche. Ora, ci sono persone capaci di introspezione e che quindi sopportano la non integrità. E c’è chi non la sopporta. Lo spiego nel mio libro sui marrani (“Marrani. L’altro dell’altro”, Einaudi, ndr). Loro dicevano “Mirar por dentro” (guardare dentro). Il marrano è costretto a guardarsi dentro. E a vedere la scissione, la non identità. E non sa se il segno della croce lo fa perché ci crede o perché è costretto. In fondo, la psicoanalisi è questo: è accettare la scissione, la grande ferita che ciascuno di noi porta in sé. Pensi a Spinoza, marrano per eccellenza, straniero in tutte le patrie. Ecco, solo uno straniero in patria può dissentire. Una persona invece che si sente tutt’uno con una nazione e con una patria non lo può fare».
Come Antigone, che viola la legga della polis perché si sente straniera in patria. Forse perché è donna?
«Sì. Sicuramente c’è un’estraneità delle donne rispetto all’identità maschile, che poi è un’identità per eccellenza. Pensi a Diotima. Però ci sono anche donne che assomigliano ai maschi».
Lei come vede il futuro della sinistra, rispetto alle questioni che abbiamo discusso?
«Sono temi che la sinistra ha aggirato, eluso. La sinistra, tra cittadino e migrante si è schierata con il cittadino. Tutti i discorsi della sinistra sono su come governare i flussi, gli sbarchi, l’immigrazione. Del resto, i cittadini votano i migranti no. Quindi la sinistra si occupa dei “propri” poveri, del welfare nel “proprio” Paese e quello che succede fuori dai confini è come se non la riguardasse».
Sinceramente, dove è il problema nel pensare ai propri cittadini e votanti?
«Il problema è che la giustizia sociale non è possibile in un Paese solo e certamente non nell’epoca della globalizzazione. La storia della sinistra è la storia dell’Internazionale. Non ci piace più la parola Internazionale? Bene, usiamo un altro termine, ma non si può tradire una vocazione e una tradizione. Altra parola diventata tabù per la sinistra è “proletariato” Ma il proletariato è per eccellenza la classe solidale. Il proletariato non è la classe ripiegata su se stessa, egoista, il proletariato combatte per i diritti di tutti, altrimenti è una corporazione. Il proletariato è la classe che emancipa le altre, quindi deve essere necessariamente solidale e internazionalista. Vorrei aggiungere un’altra cosa: il populismo è la sinistra diventata sovranista». n
ra le parole che suscitano più emozioni in questi tempi e che più dividono l’opinione pubblica e la stessa sinistra in Europa e in Italia, c’è la parola straniero; declinata talvolta come migrante, profugo, immigrato e via elencando. Ma sappiamo veramente di che cosa parliamo.
Donatella Di Cesare
Fonte: L’Espresso, espresso.repubblica.it/