Ma con chi sta davvero l’Italia? Il premier Mario Draghi ha sempre spinto per la linea più dura con la Russia, a lui si deve l’idea senza precedenti di congelare gli asset della banca centrale russa detenuti all’estero. Ma il resto del sistema italiano conserva la sua tradizionale postura filo-russa.

Lo dimostra il caso del ministro della Transizione ecologica Roberto Cingolani che, con un’intervista alla testata Politico.eu, sembra rompere un fronte europeo sulle sanzioni energetiche alla Russia che è fatto di molte dichiarazioni e poca sostanza.

Cingolani poi ha provato a smentire, ma la sostanza è chiara: dall’Italia arriva l’ennesimo messaggio politico di disponibilità ad aderire alle richieste di Vladimir Putin di continuare a pagare il gas come al solito, come prima della guerra, per far affluire verso Mosca valuta pregiata fondamentale sia per sostenere il rublo (che non è più di fatto convertibile) che per finanziare le importazioni e le spese belliche.

«Al momento, la nostra comprensione delle implicazioni e dei problemi dal punto di vista legale non è completa.  Penso che sarebbe bene, almeno per qualche mese, consentire alle aziende di procedere e pagare in rubli», queste le parole di Cingolani a Politico. Un equivoco o una forzatura?

Difficile, perché l’articolo prosegue dettagliando la posizione del ministro con altri virgolettati, tipo “Io penso che le aziende del petrolio e del gas non possono correre il rischio di essere accusate di violare le sanzioni, ma allo stesso tempo non possono neanche assumersi il rischio di non pagare in rubli” perché «si tratta di contratti a lungo termine e i costi sarebbero estremamente alti».

IL PAGAMENTO IN RUBLI

Dopo la fulminea indignazione internazionale per le parole di un ministro di peso che va contro la linea ufficiale della Commissione (pagare secondo le indicazioni di Putin viola le sanzioni Ue), dal ministero della Transizione ecologica hanno precisato che l’articolo di Politico è “fuorviante” e che “non corrisponde alla posizione espressa dal ministro Cingolani che non ha mai aperto ad un pagamento in rubli”. Una delle più autorevoli testate europee si è inventata tutto?

La spiegazione più probabile è che il troppo loquace Cingolani cerchi di salvarsi con una distinzione meramente formale: la richiesta di Putin non è che le aziende compratrici di gas paghino in rubli, ma che aprano un secondo conto di conversione presso Gazprombank, banca esclusa dalle sanzioni, sul primo pagano in euro e sul secondo convertono la somma già versata in rubli.

Il pagamento avviene in euro ma poi c’è la conversione in rubli (con il rischio di tasso di cambio a carico dell’azienda, anche se il rublo si è stabilizzato visto che i russi non possono convertirlo ufficialmente in valuta straniera).

Cingolani sembra perfettamente in linea con il principale protagonista della politica energetica italiana, cioè l’Eni, che continua a dire di non aver ancora deciso se aprire il secondo conto in rubli.

Sulla base di quanto dichiara nei documenti finanziari, Eni ha tutto da guadagnare da una tensione sul mercato delle materie prime che non sfocia in un embargo: per ogni dollaro di prezzo del greggio sopra i 90 dollari, Eni incassa 140 milioni di euro aggiuntivi.

Sul mercato il petrolio Brent è a 108 dollari, mentre si è fermato il crollo del petrolio di origine russa (Ural) segno che i mercati non vedono più crescere il rischio dell’embargo petrolifero (o ritengono lo sconto di oltre 35 dollari rispetto al Brent sufficiente a coprire il rischio di comprare greggio russo).

La mossa di Putin di tagliare le forniture di gas a Polonia e Bulgaria, la scorsa settimana, invece di compattare l’Europa sulla linea da tenere in campo energetico, l’ha frantumata. La Germania, nelle sue infinite giravolte, ora si dice favorevole all’embargo petrolifero, ma bisogna vedere a che condizioni: ha approvato anche quello, meno rilevante, sul carbone che partirà solo dopo l’estate, e chissà in che condizioni sarà l’Ucraina per allora.

La Polonia spinge per misure immediate, ma la Commissione europea sta già valutando di esentare Ungheria e Slovacchia dal possibile futuro embargo petrolifero. E, come abbiamo visto con le sanzioni finanziarie, basta una falla nella rete per mettere a rischio l’efficacia dell’intero impianto: il filo-putiniano Viktor Orbàn non vuole inasprire la posizione verso Mosca, dalle cui energie fossili dipende anche la Slovacchia.

Mentre lo stallo sul lato della guerra economica prosegue, il piano militare rimane l’unico del confronto. Con tutti i rischi che questo comporta.