Scolpisco luce per creare ciò che non c’era

di Vincenzo Trione

 

Immaginiamo Sisifo, l’eroe assurdo, il più proletario. Solleva un’enorme pietra, il corpo teso in uno sforzo sovrumano. Raggiunta, la meta è un approdo provvisorio. Sisifo è condannato da Zeus a guardare il masso rotolare di nuovo a valle. Una condizione miserevole senza mai fine. Un tormento che, tuttavia, determina consapevolezza, coscienza. Siamo dinanzi a una figura-metafora dell’uomo moderno, come ricordava Albert Camus ne Il mito di Sisifo: l’uomo, «nuovo Sisifo che torna al suo macigno, nella graduale e lenta discesa, contempla la serie di azioni senza legame, che sono divenute il suo destino». Il ribelle Sisifo è anche pre-visione della figura dello scultore, impegnato nella più difficile e faticosa tra le arti. Una pratica che si fonda sulla combinazione tra corporeità, spazialità e metafisica. Da un lato, il saper modellare eterogenee materie inerti: il creatore attribuisce una consistenza a sostanze dense e immobili, alle quali impone forme possibili. Dall’altro lato, la volontà di potenza: lo scultore dispiega corpi nello spazio che, d’incanto, si fa astratto. Dall’altro lato ancora, l’ambizione del creatore, che vuole condurre lo spettatore fuori dalla vita activa, invitandolo alla contemplazione di iconografie senza tempo.

Intorno a questo ruota la riflessione di uno tra i maggiori scultori contemporanei, Antony Gormley, in un libro-intervista scritto con Martin Gayford, Plasmare il mondo (Einaudi) che potrebbe essere letto come un’autobiografia intellettuale: per snodi, Gormley ripercorre i passaggi della sua formazione; svela i modelli cui si ispira; si interroga sulla rappresentazione del corpo umano, concepito come luogo di esperienza, emozioni individuali, coscienza, memoria e immaginazione e, insieme, come tramite attraverso il quale l’artista può connettersi con l’ambiente e altri individui. Plasmare il mondo, però, è anche altro. Involontaria storia dell’arte. E poi una sorta di fenomenologia della scultura, che sembra rispondere alla domanda posta da Gotthold Ephraim Lessing (1729-1781) nel Laocoonte: «Che cos’è la scultura?».

La maggior parte degli artisti contemporanei ha abbandonato una feconda tradizione del XX secolo, rinunciando a scrivere e a teorizzare. Il suo libro è tra le rare eccezioni.

«Io ho sempre trovato difficile scrivere. Tendo a non ingabbiare sulla pagina il mio pensiero. Che, per me, è come uno scalpello. Dapprima entro in una nuvola di particelle che fluttuano: lì dentro, lentamente, cerco di fare emergere una struttura».

«Plasmare il mondo» è una «diversa» storia dell’arte: da Stonehenge a Michelangelo, da Giacometti ai protagonisti della Land Art e del minimalismo.

«Il mio è il tentativo di riconoscere il crollo dell’egemonia dell’Occidente. Da Giotto al minimalismo, passando per Cézanne: è, questa, la storia con cui sono cresciuto da giovane. Una narrazione che non può più essere riproposta: in un’epoca di globalizzazione e di interconnessione, non esiste una sola storia dell’arte, perché ci sono molteplici storie d’arte».

Quanto conta, per lei, il senso della continuità?

«L’idea di continuità mi tormenta. Sono consapevole che viviamo in un’età di istituzionalizzazione, di commercializzazione e di mercificazione dell’arte, ma sono convinto che solo chi capisce il passato può capire il presente e solo chi capisce il presente è in grado di proporre una possibile evoluzione nel futuro».

Si sofferma a lungo sull’era arcaica, suggerendo segreti nessi tra archeologia e contemporaneità. Soprattutto, parla di Stonehenge.

«Stonehenge non è un recinto. È un’architettura che non ha l’ambizione di proteggere: un’architettura per la mente e per il corpo. Un mirabile esempio del pensiero umano, che realizza una struttura completamente aperta a chi entra. Si tratta di un atto immaginativo realizzato da qualcuno che ha detto: possiamo innalzare un’opera che sta nello spazio, misura il tempo e sarà continuata da tante generazioni di uomini».

Al centro della sua cartografia stanno Michelangelo e la «Pietà Rondanini». L’inizio dell’idea moderna di scultura.

«Michelangelo è un artista “impossibile”, che accetta una commissione, ma poi lavora alle sue condizioni. Forse, non finirà mai la Pietà. Si attiene a un’unica imposizione: costruire la forma che intende costruire. Si interroga sull’effetto della gravità su un corpo. Si confronta con una materia senza vita. Inoltre, Michelangelo si chiede come permettere a questa stessa materia di trasmettere un sentimento, quando il sentimento è fuggitivo. Perciò questa scultura non può essere completata. La Pietà Rondanini è come un Cy Twombly prima di Cy Twombly. È un’opera in divenire e noi siamo coinvolti implicitamente in quel divenire, perché messi nella posizione dello scultore. Se si osserva il capolavoro dal basso, si vede una figura che quasi crolla in sé stessa».

Michelangelo, prologo del modernismo.

«Il modernismo è nato quando gli artisti si sono liberati dall’obbligo di servire il potere, diventando gli unici autori della propria opera».

Nei secoli scolpire è rimasto un gesto originario, archetipico, un modo per resistere al divenire del tempo e riscoprire la bellezza della contemplazione.

«Scolpire ci riporta ai fondamenti. È come quando metti qualcosa al mondo, determinando una trasformazione del mondo stesso. La scultura rinvia alla nascita di un’oggetto che la realtà deve accogliere».

La scultura: un’arte del corpo e della mente.

«È una forma fisica del pensiero che fa crollare la distinzione cartesiana tra res cogitans e res extensa. La gioia della scultura: il palpabile lambisce l’intelligibile».

In che modo lo scultore tiene insieme il proprio bisogno interiore con un potente slancio metafisico?

«Tutta la mia attrazione per questo linguaggio è racchiusa in alcuni paradossi: usare il silenzio della materia per parlare dello spirito. È qui la magia della scultura».

Lei parla della scultura anche come di una disciplina alchemica: lo scultore trasforma la pietra o il marmo in altro da sé.

«L’alchimia è metafora della scultura come esercizio di sublimazione: i materiali si fanno esperienza sublimata. È il modello della trasmutazione. La scultura affronta l’ineffabile: tenta di dire ciò che non si può dire».

Lo scultore scolpisce lo spazio, lei afferma. Come avviene questo miracolo?

«Accade nel gesto dello spettatore: è importante riconoscere la partecipazione del pubblico. La scultura si dà come potenziale imminente cui puoi prendere parte».

Ma la scultura propone anche un modo per comunicare in maniera diretta. Un invito a tornare alle cose, secondo la profezia di Friedrich Nietzsche?

«Dobbiamo rifondare noi stessi e riconoscere il primato dell’esperienza incorporata».

Lei scrive della dimensione metafisica sottesa alla scultura. Pur muovendo spesso dal confronto con la scala umana, le sue opere appaiono anti-mimetiche: sembrano alludere a dimensioni spirituali, rimandando a «cose che non possono essere viste».

«Questo è decisivo. Rifiuto la rappresentazione. Provo gioia nel non limitarmi a mostrare figure, non creo l’immagine di qualcos’altro ma qualcosa che è. Con le mie opere offro un punto di riflessione. Modello un luogo dove c’è un corpo che s’impone, dono un intervallo, fermo il movimento dello spettatore nello spazio».

La sfera metafisica emerge nell’attenzione alla luce. Come si scolpisce la luce?

«La luce e l’oscurità sono come la dialettica tra tempo e atemporalità o tra un punto e l’infinito. La luce è la condizione in cui sorge la visibilità, ma si lascia comprendere solo in relazione con l’oscurità. È un gioco con i limiti. Il mio lavoro è come un buco nero nel visibile o come un’apertura per scrutare altrove».

Oggi la scultura sembra in crisi. Ma è anche vero che la scultura è ovunque (l’installazione stessa è una forma entropica di scultura).

«Viviamo in un’epoca in cui l’arte sembra accordarsi al teatro. Oggi trionfa la moda dell’accrescimento. Io, invece, credo nella sintesi e nella sublimazione. Siamo in una sorta di amnesia digitale: le registrazioni del pensiero e del sentimento non sono più nel corpo, ma in un codice, smaterializzate. Perciò, mentre ci confrontiamo con la cibernetica, con il digitale e la quarta rivoluzione industriale, abbiamo un intimo bisogno della scultura».

Nel «Laocoonte», Lessing ha parlato della scultura come di un’arte dello spazio. Nella sua concezione, invece, siamo al cospetto di un’arte del tempo.

«La scultura appartiene al tempo. Ma crea anche un luogo e fa resistenza. È un’arte che funziona meglio quando si convive con essa. Ed è espressione umana di materiali geologici trasformati, che hanno una durata superiore rispetto a quella di qualsiasi corpo. Ma, forse, la scultura è soprattutto un linguaggio che ci rende maggiormente consapevoli del nostro essere mortali».

 

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