Salgado in Amazzonia

Il grande fotografo racconta il suo nuovo progetto prodotto dal Maxxi Un viaggio nell’Eden colpito dalla deforestazione e dal virus e la testimonianza di un popolo da difendere. Per il bene di tutti
di Michele Smargiassi
Sto navigando a fianco di Sebastião Salgado lungo i fiumi del cielo.
Dicono ci sia più acqua in queste nuvole perenni che giù, nel Rio delle Amazzoni.
Adesso invece planiamo sui fiumi della terra, le vene della foresta pluviale, in piroga scavalchiamo i tronchi a pelo d’acqua, ora siamo arrivati al villaggio, possiamo entrare in una delle tre ocas, le capanne color ocra, per incontrare loro, gli indiani: «Vieni, ti presento il nostro passato vivente». Eccoli, ci guardano dritto negli occhi, dalle cornici, in pose per le quali le solite parole dei reportage fotografici, bellezza, dignità, rispetto, sembrano insufficienti. C’è invece una specie di avvertimento, di rimprovero, in quegli sguardi.
Aggirarsi con Salgado nella penombra di questa galleria del Maxxi, tra paesaggi sterminati scolpiti in bianco e nero che galleggiano nel vuoto, disposti con emotiva sapienza da Lélia Wanick, compagna di vita e indispensabile collaboratrice di uno dei più evocativi fotografi viventi, è come ripercorrere uno dei 48 viaggi che gli sono stati necessari per compiere Amazônia (catalogo Taschen), epico affresco di un Eden da cui stiamo cacciando via i nostri Adamo ed Eva: con la deforestazione, gli incendi, ed ora anche con il virus. Eppure: «ho camminato per sette anni in paradiso» sta dicendo Salgado, con quella dolce cadenza brasiliana che tinge qualsiasi lingua straniera parli.
E ora ci mostra un paradiso
perduto?
«Il momento è drammatico. Ma la distruzione dell’Amazzonia non comincia adesso. Ho scritto le cifre qui, sulla mappa. Negli ultimi quarant’anni abbiamo distrutto il 17,2 per cento della foresta amazzonica brasiliana. Prima del virus, è stato il nostro consumismo a farlo. La fame di legno per i nostri mobili, di minerali per i nostri cellulari, o di soia per ingrassare i nostri maiali».
Ma qui attorno vedo immagini di meraviglie…
«Tutto quello che ho fotografato è vivo. Stiamo rosicchiando l’Amazzonia ai bordi, il pericolo è grande, ma c’è ancora quell’82 per cento intatto, ed è gigantesco, ed è lì che sono andato. Un paradiso grande venti volte l’Italia, abitato da trecentomila persone che lo rispettano. Tribù meravigliose e segrete vivono in luoghi inimmaginabili. Oltre cento gruppi non hanno mai avuto contatti con la cosiddetta civiltà. Ma siamo al limite, bisogna agire».
Cosa perdiamo, se perdiamo gli indigeni dell’Amazzonia?
«È evidente, perdiamo noi stessi.
Loro sono noi, homo sapiens arrivati lì ventimila anni fa, rimasti lì, divisi in piccoli gruppi per sopravvivere in equilibrio con le risorse, mentre noi abbiamo moltiplicato il nostro numero fuori da ogni controllo. Sono l’origine ancora vivente dell’umanità. Sono la più grande concentrazione di diversità culturale del pianeta, 169 gruppi conosciuti, 130 lingue diverse…».
Sono l’umanità che noi non siamo riusciti a rimanere?
«Hanno il nostro sapere, ma in un altro modo. Hanno antibiotici, antinfiammatori naturali, conoscono le leggi della fisica. Un giorno, a caccia, un bambino mi dice: spostati, mio padre ha detto che la sua freccia cadrà dove sei tu. Era vero. Noi calcoliamo la balistica coi computer: quell’uomo, aggiustando la posizione di una penna».
Non le è mai venuto il desiderio di rimanere? Si fa fatica a lasciare spontaneamente un paradiso…
«Ho vissuto momenti di felicità in Amazzonia. Ma ho anche io una piccola tribù: ho mia moglie, ho un figlio disabile, ho amici. Sono tornato. La foresta è il loro posto, non il mio».
Che cosa ha portato con sé?
«L’idea della libertà. Nei villaggi non c’è repressione, non c’è violenza, non c’è imposizione. Un giorno ho chiesto all’interprete di dire a una mamma di sgridare il suo bambino che mi disturbava. Mi ha detto: non posso, non ci sono parole per dire questa cosa nella loro lingua».
Quando ha cominciato “Amazônia” lei aveva settant’anni, una fama mondiale e un’opera epica e conclusiva alle spalle, “Genesi”.
Perché ha voluto questa nuova impresa, forse la più faticosa della sua carriera?
«Un fotografo non va mai in pensione. Non è un mestiere, è il tuo modo di vivere. Ora ho 77 anni, e forse ripartirò per qualcos’altro. Incontrai gli abitanti dell’Amazzonia proprio mentre facevo Genesi, e pensai che fosse un mio dovere raccontarli».
Loro lo pensano? Non si è mai sentito un intruso?
«Non sono andato per capriccio mio. Tutto è avvenuto attraverso le loro istituzioni, prima fra tutte il Funai, che ora purtroppo è nelle mani di Bolsonaro, ma ha un ruolo decisivo nella tutela degli indiani. Abbiamo scelto assieme le dodici tribù da visitare, Yanomami, Asháninka, Suruwahá, Korubo… Poi ho chiesto, atteso e ottenuto il consenso di ciascuna, ho seguito procedure di sicurezza, ogni viaggio ha richiesto anche un anno di preparazione e lunghe permanenze. Non mi sono mai sentito un frettoloso intruso».
La sua presenza del resto non era invisibile…
«Certo che no. Non arrivavo solo. Per raggiungere alcune tribù su quelle distanze enormi servivano giorni di navigazione, anche in piroga, con guide esperte; viaggiavano con me interprete, antropologo, assistenti, anche un cuoco, perché è vietato agli estranei approfittare del cibo delle tribù. Era sempre un gruppo di dieci, dodici persone. Ma tutto questo per uno scopo solo, il mio lavoro».
Chi era Salgado, agli occhi degli indiani?
«Un fotografo. Nei villaggi con l’aiuto degli abitanti allestivo una specie di studio, una capanna, con teli e coperture ingegnose. Per i ritratti».
Hanno posato per lei. C’è una palpabile collaborazione. Che idea hanno della fotografia?
«Ci sono tribù che hanno contatti con l’esterno da un secolo, altre da ottanta, cinquanta, vent’anni, molte conoscono i media, sono organizzate politicamente. Sanno usare gli strumenti di comunicazione. In questi video, sette leader spiegano le ragioni della loro resistenza alla distruzione».
Si è proposto come una specie di portavoce?
«Non direi. Io ho messo ha disposizione il mio strumento, e ovviamente ho usato mio linguaggio. Ma il messaggio lo hanno messo loro».
Quale? Cosa ci chiedono? Di essere aiutati? O di essere lasciati in pace, lasciati da soli?
«Non possono più essere soli, e lo sanno. La pressione che sentono attorno è fortissima, non resisteranno senza l’aiuto del mondo. Lo chiedono. Ascolta le loro parole. Ci chiedono di non firmare trattati commerciali che li devasteranno. Di non comprare il legno che massacra le loro foreste, la soia che le sta rimpiazzando. Ci chiedono di fermare l’assedio. Hanno bisogno di noi, come noi di loro, è un unico destino».
La cacciata dall’Eden è vicina?
«Ho camminato in paradiso. Ma anni fa ho camminato nell’inferno, in Ruanda, nell’Etiopia della carestia. So cos’è un inferno».
Un proverbio brasiliano dice: non c’è male che duri per sempre, non c’è bene che non finisca. Lei è un economista per formazione: cosa ci aspetta, il bene o il male?
«Io penso che stiamo andando verso la fine dell’umanità. Non ascoltiamo i messaggi. Un virus ci ha messo in ginocchio, ma quanti virus si scateneranno in un pianeta squilibrato? Tre, quattro contemporaneamente, e la nostra storia sarà finita».
Lei è andato nella foresta amazzonica a cercare l’inizio. Ha trovato l’inizio della fine?
«Siamo ormai degli alieni su questo pianeta. Non viviamo nella terra, non viviamo con la terra, ma in una bolla artificiale che la consuma e la distrugge. Dovremmo fare un viaggio di ritorno, come ho fatto io, dovremmo tornare sulla terra. Non so se sia tardi, ma è l’unica possibilità che abbiamo».
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