Salvini e la propaganda tribale

Il segretario della Lega punta a travolgere con una spallata le procedure del diritto che frenano la sua ascesa al potere. E lo fa, ancora una volta, additando l’immigrazione come causa di tutti i mali dell’Italia
La sceneggiata di Salvini, che invita i senatori leghisti a votare sì al processo Gregoretti, appartiene al più classico repertorio populista: la trasformazione del lupo in agnello. Pochi lo ricordano, ma fece lo stesso identico proclama anche l’anno scorso, di fronte alla richiesta di autorizzazione a procedere per il blocco della nave Diciotti, salvo poi approfittare della disponibilità grillina per sgattaiolare e sottrarsi al giudizio della magistratura.

Stavolta in Parlamento i numeri gli sono avversi, e allora gioca la carta del vittimismo. Adombra l’inverosimile, cioè una condanna a quindici anni di carcere, in un processo per sequestro di persona il cui esito peraltro è tutt’altro che scontato. Se pure nel caso del blocco della Gregoretti risultano palesi le violazioni del diritto internazionale, cui anche un ministro dell’Interno è assoggettato, non è detto che i giudici vi ravvisino il reato di sequestro di persona; ed è in ogni caso inverosimile che chiedano il massimo della pena. Ma tant’è, la recita prevede un Salvini martire del popolo che s’immola sull’altare della sacra difesa dei confini nazionali.

Una buffonata: la rivolta contro i giudici di sinistra che “rompono le scatole alla gente che lavora”; la chiamata a un processo immaginario che dovrebbe svolgersi in uno stadio per contenere decine di migliaia di coimputati pronti a sacrificarsi al suo fianco pur di impedire – udite, udite – l’invasione degli extracomunitari.

Lo spettacolo, rimbalzato dalle piazze della campagna elettorale ai social network, culmina in prolungati show televisivi compiacenti e senza contraddittorio, per amplificare la menzogna del capopopolo solitario all’assalto delle roccaforti del sistema: ieri la Corte costituzionale, oggi il Parlamento.

Altro che svolta moderata. Salvini punta a travolgere con una spallata le procedure del diritto che frenano la sua ascesa al potere. E lo fa, ancora una volta, in mancanza di altri argomenti, additando l’immigrazione come causa di tutti i mali dell’Italia.

È interessante notare come questa pulsione eversiva si combini con la ricerca di una legittimazione internazionale che passa attraverso il rapporto privilegiato col traballante governo israeliano di Netanyahu. Quest’ultimo, a sua volta in cerca d’immunità parlamentare che lo preservi dai processi in cui è imputato, prima delle elezioni israeliane del 2 marzo non va per il sottile. E incassa il sostegno leghista motivato col riconoscimento d’Israele come baluardo occidentale contro la minaccia islamista. Così, in una intervista a un quotidiano vicino a Netanyahu, Salvini può cavarsela sostenendo che la recrudescenza dell’antisemitismo in Europa “ha a che vedere con il rafforzamento negli ultimi anni dell’estremismo e del fanatismo islamico”. Verità parziale, o meglio espediente funzionale a rimuovere gli argomenti cospirazionisti di matrice antisemita profusi in quegli stessi anni dal leader leghista.

Censurate con disinvoltura le manifestazioni convocate insieme ai neofascisti di CasaPound (che ha partecipato anche al raduno della destra in piazza San Giovanni il 19 ottobre scorso). Occultato il ricorrente, equivoco riferimento al piano di Soros e dei banchieri, burattinai della “sostituzione etnica” che causerebbe – testuale – il “genocidio” dei popoli europei.

La piccola comunità ebraica italiana, che pure al suo interno annovera molti simpatizzanti della destra, non ci è cascata. Sospetto è il bisogno leghista di tenere distinto l’antisemitismo dalle altre forme di razzismo. Brucia la mancanza di rispetto nei confronti di Liliana Segre. Smaccato è il rifiuto di ammettere le numerose offese indirizzate da parlamentari e militanti della Lega a cittadini italiani ebrei, accusati di essere stranieri traditori del popolo solo perché sensibili ai diritti degli immigrati.

Dietro a questa ambiguità che porta Salvini a iscriversi alla corrente dei “sionisti cristiani”, a occultare il filonazismo del suo ex portavoce Savoini (quello che teneva il ritratto di Hitler sulla scrivania de La Padania), e che in definitiva contempla il paradosso di essere al tempo stesso filoisraeliani e antisemiti, ritroviamo la medesima santificazione del popolo-vittima, dell’Italia “proletaria fra le nazioni”, cui s’ispira la richiesta di un processo popolare di massa sul caso Gregoretti.

Salvini che pretende un’assoluzione a furor di popolo dagli spalti di uno stadio, fuori dalle aule del tribunale, è il portavoce di un tribalismo xenofobo che mira a travolgere le regole dello Stato democratico. Non sarà certo un’azione giudiziaria a fermare l’offensiva della destra, ma c’è da sperare che gli italiani se ne accorgano in tempo.

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