Sì, parliamo di come riaprire il Paese ma senza vecchie ricette

 

 

Che occorra fin da oggi pensare a come uscire dalla condizione drammatica creata dal Covid-19 made in China e dalla sua enorme presa è una preoccupazione fondamentale e investe la comunità scientifica al pari di chi detiene responsabilità politiche. Ma è indispensabile che i criteri da adottare ed i tempi e i modi da seguire siano il risultato di approfondimenti che solo gli studi e le valutazioni in corso potranno individuare. Quanto ha lucidamente spiegato il professor Sergio Romagnani nell’intervista pubblicata dal Corriere Fiorentino il 2 aprile e, a seguire, le riflessioni del senatore Tommaso Nannicini sulla lunga transizione verso la ripresa delle attività economiche non va messo in parentesi. Sono, insieme ad altri interventi, indicazioni metodologiche basilari da acquisire per impostare qualsiasi serio discorso in materia.

Una politica credibile non può ignorare criteri elaborati su basi scientifiche. Il “come” è più importante del “quando”. Usare lo sgomento che ci attanaglia per scopi di tattica elettorale e di ricerca di consenso sarebbe inammissibile. E per questo creano sconcerto ricette del tipo di quella di cui s’è fatto sbrigativo interprete Matteo Renzi o cara ad alcuni ambienti confindustriali. «Noi dobbiamo convivere – ha scandito in Parlamento Renzi – con il Covid, ce lo portiamo dietro almeno per due anni. Se abbiamo due anni davanti non possiamo stare chiusi in casa, non possiamo tenere gli italiani senza lavorare. È un’emergenza che per i prossimi due anni ci sarà e in questi due anni riaprire le aziende è fondamentale o condanniamo il Paese a una sterminata massa di disoccupazione». E ha concluso: «O adesso siamo in condizione di immaginare il futuro economico o faremo lo stesso errore dei ritardi fatti in altri settori sulla situazione sanitaria. Facciamo le scelte giuste e tutto andrà bene». Certo che dobbiamo «immaginare» il futuro e mettere a fuoco le trasformazioni radicali da introdurre con realistica gradualità, e rivedere le pratiche economiche e finanziarie, reinventare i requisiti di salvaguardia ecologica e sanitaria. Ma non crediamo che, per la necessità di incassare profitti o sfruttare rendite come prima della bufera, la parola d’ordine giusta sia: «Riapriamo tutto e abituiamoci a convivere con la peste!». A parere dell’ex premier ci sono 5 o 10 milioni di italiani asintomatici che hanno già contratto il Covid-19 e sviluppato gli anticorpi: «Perché – si è chiesto – tenerli in casa?». Ma il punto è proprio questo: con quali mezzi e metodi si possono separare questi fortunati dal resto della popolazione? Anche e soprattutto da questa risposta può dipendere il come e quando far ripartire l’Italia.

I problemi giganteschi da risolvere – per quanto sarà ottenibile – non riguardano un’impresa o una leadership, ma il destino di uomini e donne che esigono un mondo diverso, un alto rispetto della loro dignità di persone e lottano per non essere spediti al macello beffandosi di un virus impietoso. I liberismo ha offuscato le menti. Si è creduto che tutto potessi darsi ovunque, ridurre i costi, velocizzare i guadagni. Su The Economist è apparso un neologismo ancora non registrato nei vocabolari, “slowbalization”, per dire “deglobalizzazione”, per indicare la necessità di un rallentamento, di un rapporto ragionevole tre tempi e luoghi, tra natura e macchina. La politica non riguadagnerà fiducia se non motiverà le scelte dure da compiere rifiutando la chiacchiera nemica da sempre della verità, di quel tanto di approssimativa verità (da sottoporre continuamente a critiche prove) che si sarà capaci di raggiungere. Non parla a nessuno il repertorio di usurate metafore: «nel 1348 Firenze fu massacrata dalla peste – ha ricordato il senatore Renzi –, ma dopo il disastro iniziò il percorso che portò al Rinascimento». Quante volte è rinato il Rinascimento!

Memorabili le parole pronunciate da papa Francesco in una sera buia e piovosa: «La tempesta smaschera la nostra vulnerabilità e lascia scoperte quelle false e superflue sicurezze con cui abbiamo costruito le nostre agende, i nostri progetti, le nostre abitudini e priorità». E senza mezzi termini ha esclamato: «è caduto il trucco degli stereotipi con cui mascheravamo i nostri ‘ego’ sempre preoccupati della propria immagine». Ecco: discutiamo accanitamente, battiamoci per accelerare una ripresa su basi davvero innovative, impediamo un’attendistica e infeconda desertificazione. Sapendo, però, che non deve essere rispolverata e riproposta l’agenda di prima. Gli stereotipi non ingannano più nessuno.

 

Roberto Barzanti

“Corriere Fiorentino”, 4 aprile 2020, p. 9