Raffaele Mincione, un raider tra offshore e “Bottadiculo”

L’elegante nome che ha dato alla sua barca non è la cosa più interssante dell’uomo che ha preso il 5 per cento di Carige e in passato 
ci aveva già provato con Mps e Popolare di Milano

DI VITTORIO MALAGUTTI

La sua barca a vela, un dodici metri da competizione, si chiamava Bottadiculo. Forse il nome non è il massimo dell’eleganza, ma evoca a modo suo la buona sorte, ingrediente chiave del successo di ogni speculatore che si rispetti. Compreso il finanziere Raffaele Mincione, che negli anni scorsi, mentre collezionava affari in mezzo mondo, ha trovato il tempo di partecipare a molte regate internazionali. Con Bottadiculo, naturalmente.

Acqua passata, quella. Da tempo ormai Mincione indossa la divisa del raider di Borsa. Tra fondi lussemburghesi, speculazioni in Russia, affari immobiliari a raffica e giochi di sponda assortiti a Malta, Jersey e i Caraibi, il fotogenico Mincione, in passato immortalato al fianco di affascinanti signore del bel mondo londinese, è diventato con gli anni un protagonista fisso del gran romanzo delle banche italiane. La sua ultima scommessa lo ha portato a Genova, dove la locale Cassa di Risparmio, diventata Carige quotata in Borsa, se la passa molto male tra conti in forte perdita e ribaltoni al vertice. Il 16 febbraio scorso, Mincione ha annunciato di possedere il 5,4 per cento della banca ligure, che nonostante le difficoltà recenti resta comunque tra i primi dieci istituti di credito in Italia per numero di filiali e attività in bilancio.

Lo sbarco in Liguria non è casuale. Partito dalla natia Pomezia oltre trenta anni fa, Mincione si è conquistato un posto al sole nella City di Londra, ma non ha mai dimenticato la madrepatria, dove coltiva importanti amicizie nel mondo politico, della diplomazia e dei grand commis di Stato. Tra i suoi consulenti, per dire, troviamo l’ex presidente del Consiglio Lamberto Dini e anche Alain Economides, dieci anni fa capo di gabinetto dell’allora ministro degli Esteri Franco Frattini e poi ambasciatore nella capitale britannica. Approdato a Genova, il finanziere con base a Londra ha chiesto di entrare nel consiglio d’amministrazione, accanto ai rappresentanti dei due maggiori azionisti: l’imprenditore Vittorio Malacalza, forte del 20,6 per cento, e il petroliere Gabriele Volpi, con il 9 per cento circa.

Niente da fare, la richiesta è stata respinta e ora Mincione dovrà trovare il modo di far fruttare il suo investimento. In passato non sempre gli è andata bene. Nel 2012 aveva comprato l’1 per cento circa del Monte dei Paschi quando già la banca senese si trovava sull’orlo del baratro. Dura poco. Nel giro di un anno o poco più l’azionista venuto da Londra esce di scena vendendo, in perdita, il suo pacchetto di azioni. È andata meglio con la Popolare di Milano (Bpm), dove Mincione era approdato già nel 2011 rastrellando in Borsa l’8,7 per cento del capitale. Da allora, nella grande banca lombarda è successo di tutto: cambi della guardia al vertice, indagini della magistratura (l’ex presidente Massimo Ponzellini è stato condannato a un anno e sei mesi per corruzione), battaglie borsistiche tra cordate contrapposte di azionisti.

A fine 2016, la Bpm si è fusa con il Banco Popolare di Verona. Dall’operazione è nata la terza banca italiana e Mincione è ancora lì, con una quota che nel frattempo si è però diluita fin sotto il 2 per cento. Difficile stabilire con precisione se quest’ultima incursione si sia rivelata un affare. I valori di acquisto e vendita delle azioni Bpm sono custoditi nei bilanci dei fondi d’investimento del finanziere, quelli con base in Lussemburgo, e le società del Granducato non sono certo un modello di trasparenza.

Nel 2015 la quotazione della banca milanese era aumentata di quasi il 70 per cento. Nel 2016, invece, prima della fusione con il Banco Popolare, le azioni della banca milanese hanno perso il 60 per cento circa, annullando quasi del tutto i guadagni dell’anno precedente.

Poco male, Mincione nel frattempo aveva già fatto rotta su Genova. Incalzata dalla Vigilanza europea, a fine 2017 Carige ha chiesto 500 milioni in Borsa per tappare le falle più evidenti in bilancio. L’operazione si è chiusa a dicembre con successo. Nel parterre dei grandi soci, però, tira ancora una brutta aria. Malacalza reclama poteri commisurati al suo pacchetto di titoli, ma Volpi non sembra disposto a dargli strada. Il braccio di ferro si trascina da mesi e l’arrivo di un terzo incomodo come Mincione, pronto a sparigliare il campo, ha avuto già come primo effetto quello di interrompere la caduta libera del titolo Carige, ridotto ai minimi termini per effetto di una serie infinita di brutte notizie.

Nei giorni scorsi la quotazione ha ripreso a salire. Poca cosa per il momento, ma molti investitori sono sicuri che per la banca genovese il peggio sia ormai alle spalle. Senza contare i nuovi possibili rialzi innescati dalle manovre in Borsa dei grandi soci. Mincione ha già giocato le prime fiches e sembra pronto, nel caso, ad aumentare la sua puntata. Per lui Carige resta comunque solo uno tra i tanti fronti aperti. I bilanci dei suoi fondi lussemburghesi raccontano per esempio di investimenti immobiliari in Gran Bretagna e anche in Russia, questi ultimi finanziati per decine di milioni di euro attraverso società offshore con base a Cipro o nei Caraibi. Un altro flusso importante di denaro è invece transitato da Malta, che è diventata un eldorado della finanza, con tasse e burocrazia ai minimi termini.

Nella piccola isola del Mediterraneo, Mincione controlla una scuderia di fondi d’investimento con il marchio Eurasia. Un nome quest’ultimo che ricorre più volte nelle carte delle authority di Vigilanza (Consob e Bce) che a partire dal 2015 hanno indagato sulla Popolare di Vicenza destinata a finire in liquidazione nell’aprile dell’anno scorso.

Le carte dimostrano che alla fine del 2012 la banca veneta allora presieduta da Gianni Zonin investì 100 milioni di euro nei fondi di Mincione, gli Eurasia di Malta e i lussemburghesi Athena. A questi si aggiunsero altri 250 milioni dirottati verso veicoli d’investimento lussemburghesi e maltesi targati Optimum e controllati dal finanziere Alberto Matta. Parte di quei soldi servirono ad acquistare azioni della stessa Popolare Vicenza.
In pratica, la banca finanziò le società offshore gestite da Mincione (e quelle che facevano capo a Matta) per rilevare azioni proprie, aggirando i limiti stabiliti dalla legge.

Le carte d’indagine svelano che i fondi del gruppo Athena-Eurasia sono arrivati a possedere titoli Popolare Vicenza per un valore di 30 milioni. Ad aprile 2015, quando esplose lo scandalo con le dimissioni dei manager di vertice della banca veneta, le azioni in portafoglio ammontavano a 16 milioni. Gli affari con i fondi offshore sono più volte citati anche nelle carte della procura di Vicenza che ha indagato sugli affari della banca veneta, fallita l’anno scorso. «Abbiamo sempre agito in totale correttezza e trasparenza», recita a questo proposito un comunicato dei fondi Athena. Tutto regolare, quindi.

Di certo, a suo tempo, i soldi della Popolare hanno fatto comodo anche a Mincione. Nelle carte ufficiali si legge che il fondo Athena Capital Balanced 1, registrato in Lussemburgo, ha comprato obbligazioni della società Time & Life, anche questa con base nel Granducato. Il fondo che ha sottoscritto i titoli era finanziato dalla banca all’epoca guidata da Zonin. Time & Life, invece, fa capo a Mincione, che ha così ricevuto, via Athena fund, 10 milioni di euro dalla Popolare di Vicenza. Una bella bottadiculo, con rispetto parlando.

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