«Quello che la sinistra vuole non è l’antirazzismo Ma un nuovo razzismo contro i (maschi)bianchi» Pierre-André Taguieff

 

N on c’è opera di Pierre-André Taguieff che non abbia contribuito in modo determinante al dibattito intellettuale francese: dai suoi lavori sulla Nuova Destra e la neogiudeofobia ai suoi studi sul complottismo e sulle nuove forme di razzismo che allignano nella società occidentale. Filosofo, politologo e storico delle idee, Taguieff è direttore di ricerca presso il Centre national de la recherche scientifique (Cnrs). È appena tornato in libreria con L’imposture décoloniale. Science imaginaire et pseudo-antiracisme (Éditions de l’Observatoire/Humensis), un saggio sulla «corruzione ideologica dell’antirazzismo» e sulla «conquista decoloniale degli spiriti». «L’impostura, anzitutto, sta nel fatto che non c’è un “pensiero postcoloniale” né un “pensiero decoloniale”, che non esistono approcci scientifici fondati su un corpus di concetti, di modelli di intelligibilità e di ipotesi che costituirebbero la “teoria post-coloniale” o la “teoria decoloniale”», dice al Giornale Taguieff, prima di aggiungere: «Non si trovano “ricercatori” in questi campi: le persone che si considerano tali, in realtà, non fanno ricerca, perché sono convinti di sapere già tutto sulle questioni di cui si occupano, ossia che i retaggi della tratta atlantica e del colonialismo europeo spiegano l’esistenza del “razzismo sistemico”, ossia del razzismo “bianco”, nelle società occidentali contemporanee». Qual è il profilo di questi autoproclamati pensatori “post-colonialisti” o “decolonialisti”? «Tra quelli che si qualificano in tal modo, si trovano soltanto scrittori e professori universitari di estrema sinistra politicamente impegnati nella critica, più o meno radicale, della storia e del pensiero europei. Essi utilizzano gli strumenti intellettuali di alcuni pensatori europei post-moderni o post-strutturalisti, adepti della “decostruzione” dei concetti filosofici, a cominciare dal più celebre di loro, Jacques Derrida. Gli ideologi del post-colonialismo e del decolonialismo ritengono che il razzismo coloniale sia in un certo senso una malattia ereditaria e contagiosa che colpisce i discendenti degli schiavisti e dei colonialisti, i quali vivono in società neoschiaviste e neocolonialiste dove i “dominati” sono inevitabilmente “razzizzati”. Il razzismo coloniale è dunque una malattia che si eredita e si contrae tramite semplice contatto. Dinanzi alla presunta persistenza del razzismo coloniale è prescritto un unico rimedio: la denuncia litanica di questo razzismo. È l’“antirazzismo politico”, strumento di intimidazione la cui sola funzione è discreditare qualsiasi critica del post-colonialismo e del decolonialismo. La mia critica dell’impostura decoloniale verte anzitutto su una storiografia che ha le sembianze di un regolamento di conti con il passato nazionale e si basa su una serie di sciocchezze e sulle strumentalizzazioni politiche di queste denunce iperboliche del retaggio coloniale. Non c’è una “ricerca” post-coloniale o decoloniale, c’è soltanto un ritornello militante di accuse che mirano a criminalizzare la Francia, e, più in generale, l’Occidente». Cos’è l’“antirazzismo razzista” che lei denuncia nel suo libro? «Essere antirazzista nella vita sociale ordinaria significa prendere posizione contro gli incitamenti all’odio, al disprezzo, all’esclusione o alla violenza nei confronti di certe persone, a causa delle loro appartenenze o delle loro origini. Ma il presunto “nuovo antirazzismo”, chiamato anche “antirazzismo politico” dagli ideologi del decolonialismo, non è altro che una macchina da guerra contro “i bianchi” e la “società bianca”. Esso deriva dalla definizione antirazzista del razzismo fabbricata dai militanti rivoluzionari afro-americani alla fine degli anni Sessanta, conosciuta sotto diverse denominazioni: “razzismo istituzionale”, “razzismo strutturale” o “razzismo sistemico”. Non si tratta di una concettualizzazione del razzismo, ma di un’arma simbolica che consiste nel ridurre il razzismo al razzismo bianco, considerato intrinseco alla “società bianca” o alla “dominazione bianca”, la sola forma di dominazione razziale riconosciuta e denunciata dai neo-antirazzisti. Questo “nuovo antirazzismo” ricorre a delle categorie razziali per definirsi, tanto nelle sue fondamenta quanto nei suoi obiettivi. Sarebbe più adeguato definirlo come uno pseudo-antirazzismo o, più precisamente, come un antirazzismo anti-bianchi. Ma un antirazzismo anti-bianchi è un antirazzismo razzista». Negli ultimi tempi, stiamo assistendo a una radicalizzazione dell’odio contro l’Occidente (statue abbattute, strade sbattezzate, etc.) Secondo lei, quali sono le cause e quali saranno le conseguenze di questo fenomeno sempre più inquietante? «L’occidentofobia è la passione negativa più visibile nello spazio pubblico. Ma non corrisponde a un profondo movimento d’opinione: è l’espressione di minoranze attive che padroneggiano perfettamente l’arte di catturare l’attenzione dei media e di imporsi attraverso diverse tecniche sui social network. Una delle origini dell’odio ideologizzato nei confronti dell’Occidente “imperialista” e “razzista” è la vulgata marxista e terzomondista. L’altra è l’importazione in Francia della “questione nera” all’americana. Il fenomeno non è nuovo: gli intellettuali e gli attivisti che avanzano sotto le bandiere del post-colonialismo e del decolonialismo si impegnano dall’inizio degli anni Duemila a diffondere la falsa idea secondo cui i problemi della società francese si spiegano principalmente con i retaggi dello schiavismo (tratta atlantica o commercio triangolare) e del colonialismo, dunque, secondo loro, con un razzismo persistente, strutturale e non riconosciuto come tale. In Francia, così come negli Stati uniti, questo razzismo sarebbe il razzismo bianco ereditato dall’imperialismo coloniale di cui i neri e i “popoli di colore” sarebbero vittime in eterno». Perché l’importazione delle problematiche americane è stata più rapida e più aggressiva in Francia rispetto agli altri Paesi europei? «Ciò è dovuto all’incontro tra le mobilitazioni internazionali provocate dalla morte di George Floyd e la riattivazione, orchestrata dalla famiglia Traoré e da diversi gruppi di attivisti identitari, della leggenda di un Adama Traoré vittima del razzismo dei gendarmi che lo hanno arrestato. Questa leggenda ha permesso di ergere la morte del delinquente Adama Traoré a simbolo di tutte le vittime delle “violenze della polizia”, attribuite come una seconda natura ai poliziotti bianchi, presentati come degli agenti al servizio di un “razzismo di Stato”. Questa simbolizzazione abusiva ma accattivante ha permesso agli attivisti pro-Traoré di allargare la cerchia dei loro militanti e dei loro simpatizzanti verso la sinistra e l’estrema sinistra “bianche”. All’importazione grossolana della “questione nera” da parte di gruppi di agitatori identitari si è aggiunta una moda ideologica fondata sull’eroizzazione del delinquente morto da martire: l’icona Floyd ha preso il posto dell’icona Guevara. La religione dell’Altro alla quale si riduceva l’antirazzismo moralizzatore tende a essere sostituita dal culto della Vittima “di colore”, non bianca. Benché in Francia non esistesse, la “causa nera” si è iscritta all’ordine del giorno, oscillando tra la sua versione miserabilista (il trattamento dei neri come vittime) e la sua versione identitaria (l’affermazione dell’“orgoglio nero”)». Quali sono gli obiettivi di quelli che lei definisce “pseudo-antirazzisti”? «Le minoranze attive organizzate che rivendicano di appartenere all’antirazzismo hanno come unico progetto la distruzione della società “bianca”, ritenuta intrinsecamente strutturata da un “razzismo sistemico” non riformabile. I “bianchi” sono la nuova razza maledetta, unica colpevole dello schiavismo – ridotto solamente alla tratta atlantica, perché delle tratte intra-africana e arabo-islamica è vietato parlare – del colonialismo, dell’imperialismo e del razzismo. Il programma comune di questi nemici della civiltà europea sta in tre parole: decolonizzare, demascolinizzare, diseuropeizzare. La mia posizione di intellettuale impegnato è quella di una resistenza risoluta alla tirannia delle minoranze che si sta insediando dietro la maschera dell’“antirazzismo” e del neofemminismo. Alcune minoranze attive, che formano dei gruppi di pressione, vogliono farci credere che tutti i problemi sociali siano legati agli effetti delle discriminazioni razziali, sessiste, omofobe, etc. La loro strategia comune è quella dell’intimidazione, attraverso campagne orchestrate sui social network e interventi in modalità commando ultra-mediatizzati, al fine di censurare determinate opere e criminalizzare certe persone. L’obiettivo a medio termine di queste minoranze è quello di vincere la battaglia culturale imponendo il loro vocabolario, i loro temi e le loro tesi nello spazio pubblico. Assa Traoré, al vertice del Comitato Adama Traoré, non ha dissimulato i suoi obiettivi politici, apertamente insurrezionali, quando nel 2018, nel corso di una manifestazione, ha evocato il modello rivoluzionario africano dei suoi sogni: “È importante concludere delle alleanze forti. In Africa, rovesciano il presidente, entrano nel palazzo. Lì si fa così, perché non dovrebbe accadere anche qui in Francia? Siamo pronti, possiamo fare una bella rivoluzione”. Il futuro decoloniale della Francia sarebbe dunque diventare africana. Tenuto conto dell’economia predatoria, della criminalizzazione delle pratiche di potere, della moltiplicazione delle milizie armate, così come delle frodi e dei traffici di ogni sorta che si osservano negli Stati pericolanti dell’Africa subsahariana, questa prospettiva sarebbe assolutamente terrificante se fosse presa sul serio. Ma è soprattutto infantile, e mostra tutta l’irresponsabilità di questa nuova egeria del movimento Black Lives Matter alla francese». Quali sono i pericoli della penetrazione dell’ideologia indigenista nelle università francesi e, più in generale, nell’intera società? «Siamo in presenza di una nuova visione razzista del mondo, che utilizza la lingua dall’antirazzismo, ma deformandola per adattarla alla guerra culturale contro il mondo “bianco”. Una corrente costituita da giustizieri maniaco-differenzialisti trova la sua coerenza profonda nella designazione di un unico bersaglio: “i bianchi” o “il bianco”. I suoi obiettivi si riassumono in tre parole: intimidire, colpevolizzare, epurare. Dalla metà degli anni Duemila, alcuni settori dell’insegnamento universitario sono diventati dei laboratori del decolonialismo e dello pseudo-antirazzismo razzialista. È una manna dal cielo per gli opportunisti in cerca di una poltrona. I dipartimenti di scienze sociali sono particolarmente colpiti dalla propaganda decoloniale, che si traduce sempre di più in un’intolleranza militante e in delle cacce alle streghe in nome dell’“intersezionalità”. Le vittime di queste cacce agli eretici sono i “bianchi”, principalmente uomini, criminalizzati, giudicati intrinsecamente razzisti, di cui si reclama la morte sociale. Gli insegnanti che manifestano la loro contrarietà vengono isolati e maltrattati. Per sfuggire al terrorismo intellettuale, alcuni tacciono, altri praticano l’autocensura o pubblicano sotto pseudonimo. Si discrimina e si perseguita in nome della lotta contro le discriminazioni. La grande disgrazia di questo inizio di Ventunesimo secolo è che sarà ricordato come il periodo in cui gli ideali antirazzisti sono stati messi al servizio dell’intolleranza, del settarismo e della violenza iconoclasta. Dobbiamo far fronte a quella che può essere definita come la conquista decoloniale degli spiriti. L’antirazzismo alla francese era universalista e promuoveva una politica di integrazione nella comunità dei cittadini, senza distinzione di “razza”. Con l’antirazzismo in versione decoloniale si diffonde una visione differenzialista e multicomunitarista della società, che fossilizza le appartenenze identitarie, erge il colore della pelle a criterio pertinente e si traduce in una politica separatista o in una guerra tra razze. A questa si aggiunge una guerra tra i sessi o tra i generi. La “giustizia” decoloniale e la “giustizia” misandrica sono le due forme gemelle della “giustizia di strada” così come viene praticata oggi. Tutto inizia con una serie di accuse essenzialiste: “uomo”, dunque colpevole, e “bianco”, dunque colpevole; “maschio bianco”, dunque due volte colpevole; “poliziotto bianco”, dunque tre volte colpevole. Seguono i linciaggi mediatici, alimentati dalle “fake news” che circolano sui social network e orchestrati dalle minoranze attive. Per gli utopisti epuratori che vogliono eliminare totalmente il “razzismo sistemico”, mettere fine alle discriminazioni razziali significa mettere fine al “mondo bianco”. Un sogno inquietante, dagli accenti genocidari. Ma politicamente corretto». Mauro Zanon

 

 

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