Enzo Mari, «il mio progetto del piccolo ha la dignità di un grattacielo»

Stavamo ragionando sugli «omaggi» (Triennale) e sulle riproposte (Galleria Milano) che questo autunno, per una strana coincidenza, riguardano Enzo Mari che l’improvvisa notizia della sua morte ci addolora e disorienta più di altre. Mari, infatti, era un lettore esigente e severo di questo giornale, un riferimento continuo per qualsiasi confronto volessimo avere sul progetto contemporaneo. Perché va detto con chiarezza, è il mestiere di progettista con i suoi risvolti teorici e politici che lo interessava. È quindi riduttivo pensare che fosse solo un designer nell’accezione corrente. Anzi, del design rifiutò per tutta una vita sia le logiche mercantili, sia l’ideologia che lo sottende, assimilando l’oggetto – per intenderci il prodotto dalla serialità industriale – a un’«opera d’arte».

POICHÉ AVEVA CURIOSITÀ e passione per il mondo reale amava le «cose pensate, riferimenti chiari per la gente comune» come espose al suo amico e poeta Renato Pedio. Di conseguenza poneva il Lavoro al centro (è il titolo della mostra del 1999 alla Triennale) cercando ogni volta di «contrattare» con fatica con gli industriali che incontrò tutti i modi che gli riusciva di scovare per contrastare la «ridondanza» della merce, sempre pronta per il consumo che dovunque, dall’ambiente domestico a quello collettivo, vedeva sotto le sembianze dell’edonistico e del superfluo.
Combatteva la sua battaglia avendo realisticamente coscienza del fatto che l’utopia risiedesse nella creazione di un oggetto o di un ambiente dalla «forma significativa», nella specie «allegorica» perché riguardante i «sogni dell’uomo», o sincera perché legata alla materia. O ancora, la più importante, connessa alla «qualità etica dei bisogni»

L’UNICITÀ DI MARI sta in questa personalità d’intellettuale poliedrico, interessato alla dimensione sociale e politica della progettazione, rivolto all’invenzione non solo di oggetti, sistemi di arredo, giochi per la didattica e soluzioni per l’ambiente urbano, ma in un numero rilevante di pubblicazioni, saggi e interventi riguardanti la sua riflessione critica e teorica sul prodotto industriale, inseparabile dal suo fare di progettista.
Già ai suoi esordi, agli inizi degli anni Cinquanta, s’interessa alla psicologia dei fenomeni percettivi e sui metodi e gli strumenti della comunicazione. Lo fa in maniera sperimentale frequentando l’Accademia di Brera e seguendo un percorso di studi da autodidatta, concentrandosi sui processi che attraverso l’arte generano socialità.
A quel periodo risalgono alcuni modelli tridimensionali e strutture che sono vere e proprie opere d’arte che Lea Vergine (Mari la sposò nel 1978, ma la conobbe nel 1966) spiegherà appartenenti all’Arte Programmata e Cinetica con la mostra a Palazzo Reale di Milano L’Ultima avanguardia (1984)

La mostra in corso alla Galleria Milano “Falce e martello”, che torna 47 anni dopo la prima volta

NEL DECENNIO successivo, sempre più interessato alla ricerca percettiva e alle metodologie della progettazione – che pure insegna alla Scuola Umanitaria di Milano – sposta il suo interesse dalla ricerca artistica degli «apparecchi» idonei alla verifica degli stati percettivi, agli oggetti «produttivi» rivolti al mercato dell’arredamento domestico. Contenitori, vasi, lampade, portaceneri, cestini, poltrone e tavoli, prodotti da marchi quali Danese, Driade, Artemide, decretano il suo ingresso nel campo del design vero e proprio e il suo successo internazionale.
Sono tutti oggetti alla scala domestica che Mari rivendicherà sempre con fierezza affermando: «il mio progetto del piccolo ha la dignità di un grattacielo». La loro «forma semplice» – che Mari insegue con ostinazione – rifugge l’ovvio e il banale, è il risultato di una lenta e progressiva rimozione del cosiddetto styling, l’effetto dell’eliminazione dei «mille rumori nocivi» che assordano la nostra capacità di ascoltare il vero «messaggio» che gli oggetti comunicano quando assolvono alle leggi della necessità. Mari è stato il fedele interprete del raggiungimento di ciò che gli svizzeri (Max Bill) definirono la Gute Forme, probabilmente il solo che comprese che per superare il funzionalismo, così come la recepimmo via Bauhaus, fosse indispensabile comprendere che qualsiasi principio stilistico, in definitiva la bellezza, doveva avere uno scopo (raison d’être)

IN UN’INTERVISTA che rilasciò a il manifesto in occasione della sua laurea honoris causa in disegno industriale conferitagli dal Politecnico (2002) richiamò la cultura dell’Umanesimo fiorentino per dirci che in quell’epoca architetti e pittori nel disegnare ponti, cupole e affreschi ignoravano gli specialismi. Stabilirono delle regole per una «progettazione totale» decidendo la «forma com’è» e non «come sembra», pertanto soggetta a ogni arbitrio.
Da qui la sua amara riflessione che la scissione tra «cultura umanistica» e «cultura tecnica», causa di quel progressivo processo di «allontanamento dal globale», ha prodotto veri danni. «L’etica può avere una forma plastica – ci disse – ma di certo non come somma cretina d’infinite separatezze»

SOLO IN QUESTA PROSPETTIVA di unità (smarrita) tra semplicità e necessità, forma e funzione, si può raggiungere la verità come recita il suo aforisma che racconta: «Vero progettista è il contadino che pianta un bosco di querce. Egli non potrà usufruirne. Lo potranno le generazioni future».
Ancora nel segno della socializzazione è la sua «Proposta di autoprogettazione» (1974) che crediamo sia il lascito più radicale e politico di Enzo Mari. Come di lui comprese Argan nelle nostre «megalonecropoli del neocapitalismo» c’è bisogno «come Robinson nella sua isola» di costruire gli utensili con cui costruirsi un ambiente da poterci vivere. Mari lo ha insegnato con grande rigore e onestà intellettuale.

QUI L’INTERVISTA DEL 2002 RILASCIATA ALL’AUTORE DELL’ARTICOLO

https://archiviopubblico.ilmanifesto.it/Articolo/2002019310

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